Konrad Hofer / Aldo Giovannini
di Giovanni Carbone -Lukas Lavater & Annemarie Monteil
Modica, Aprile 2023
I Colori dello Spirito
Il colore suggerisce la percezione della vita. (O il contrario?)
Konrad Hofer, era nato nel 1928 e cresciuto nella zona rurale di Langenau, nell’Emmental, dove l’ambizione più grande era diventare macchinisti, direttori di banca o piloti. Non per Konrad Hofer. Lui sognava fin da piccolo l’utilizzo del pennello, seguire la linea del disegno per cui intraprese la via dell’arte.
Nel 1949 si trasferì a Basilea, dove trovò il terreno fertile nella cultura degli anni ’60 e ’70 per sviluppare il suo talento. Le tante esposizioni nelle diverse gallerie vissero attraverso le impressioni della sua vita, espresse dai suoi dipinti dai colori terrosi. Possiamo ancora ammirare i suoi dipinti e rilievi in varie università, edifici bancari e spazi pubblici.
Konrad Hofer apparteneva alla classe popolare, un artigiano, un artista della vita, un uomo libero. Non si è mai asservito al sistema, con un impiego da insegnante come altri suoi colleghi, anche se questo gli avrebbe reso la vita più semplice.Era un uomo socievole che si sentiva a suo agio nella cerchia degli amici e familiari. Per dipingere però aveva bisogno di calma e solitudine: si sedeva lasciando che il mondo gli scorresse accanto per assorbirne le impressioni con tutti i sensi attivi e trasmettere nella tela le sue visioni.
La Provenza fu fonte inesauribile di ispirazione: paesaggi, dolci colline, mandrie di bovini, formazioni rocciose. I vigneti come personale elisir di lunga vita, argomento di incontri, guida attraverso le stagioni, si manifestavano sulla tela.
Dalle cave portava a casa non solo le immagini figurative, ma anche la sabbia che utilizzava per conferire una sorta di autenticità ai suoi dipinti. Ha collegato terra e cielo con lunghe pennellate orizzontali, con l’uso di matite, mentre per le rocce ha scelto toni acrilici, aspri. Realtà del quotidiano? Certo, ma da buon bernese riflessivo, trascurava il casuale, l’oscuro. Però andava fino in fondo ai fenomeni, dove questi rivelano l’essenziale, l’unico.
In lunghe riflessioni in studio, su più temi, elaborò la capacità significante di un paesaggio, di una cava, di una formazione montuosa.
Il suo quotidiano era piacevolmente rituale, la porta del suo studio sempre aperta, familiare. All’interno il fascino del professionista libero, le prove pittoriche di un lavoro costante e la calda aura di Konrad Hofer persona. È difficile sfuggire a questa formula unica. Riceveva con la stessa cordialità i direttori di banca e gli umili: si trattava di ghiotte occasioni per scegliere una bottiglia di rosso durante le gradite visite in studio e permettere ai visitatori di gettare uno sguardo sulla sua vita dipinta nell’anima.
Il suo miglior marketing era la sua essenza (anche se la parola marketing gli era del tutto estranea!).
I suoi quadri: pieni di densità d’impressioni, un’intera tavolozza di percezioni sensoriali, colori del silenzio che hanno tanto da raccontare, ubriachi di vita. Senza tempo.
Lukas Lavater & Annemarie Montiel
Aldo Giovannini, artista bolognese, classe 1967, fa della sua opera il rifiuto organico del paradigma dell’uomo contemporaneo, rifugge il vissuto di linee ritte, senza gomiti e tornanti, percorse in un tempo inutilmente accelerato. Pare concepire l’idea del quanto meglio s’avverrebbe ad esser tutti lenti, a procedere per partecipato affratellamento con le cose del mondo, fare che si disvelino le prospettive altre di armonie e bellezze, pure quelle interiori che disaffezione all’attenzione autentica seppelliscono nella coltre oscura e densa di immaginari collettivi. La linea ritta è si assai più rapida, ma uguale a se stessa, è itinerario cash & carry, percorso mordi & fuggi. L’itinerario più breve per un altro percorso prestabilito, eterodefinito e rettilineo, dove non v’è gusto d’incontro. I suoi itinerari, invece, sono tracciati come sorpresa d’infinito, fili di ferro che si dispiegano in traiettorie che non appartengono a chi di fretta fece virtù superiore. Preferisce l’indugio della narrazione, la memoria e lo sguardo di chi sa fermarsi e lancia occhio e cuore alla deriva inattesa, senza vincoli al bivio per scelte mai scontate. Il tempo, nell’opera di Aldo Giovannini, non è variabile imprescindibile.
Non s’arrende a che il presente sia l’unica prospettiva temporale concessa, esplora il passato mentre guarda il futuro, elude l’idea d’una libertà negata per prigionia autoinflitta e inconsapevole, per la fila alla cassa, per la direzione mai a linea sghemba. Lascia ad altro la monotonia di strade esatte, ad altro che solo quelle conosce giacché non ambisce a percorsi panoramici, alla lentezza che vede tutto. Ad altro cede volentieri i tempi stretti della velocità di logaritmo, ché non v’è possibilità di scorgere un nuovo dettaglio che si fa racconto nell’accelerazione a parossismo. Lui non spera nella stazione celata dal muro, in benedizione d’assoluzione, nel conforto delle sacre stanze di corruzione. Si dissocia dal mondo che non concepisce resa, non la prevede, si fa, invece e per diserzione, isola ch’è sorta dal mare e nessuno vede, di cui l’uno qualunque non conosce esistenza nemmanco a binocolo o telescopio portentoso, poiché occhi non ha, neanche prospettiva di deriva e approdo.
Conforta nella sua visione d’artista l’addivenire a conclusione che «il mondo abitato dall’uomo moderno è ormai denso, saturo, di immagini e suoni… si accavallano tra loro, entrano dentro di noi e non ci danno il tempo di metabolizzare ciò che si portano con sé. La dimensione temporale si è compressa impedendoci di trovare una “risposta”. Siamo portati a divenire soggetti passivi, spettatori di una quantità impressionante di sollecitazioni. Fermare il tempo o almeno rallentarlo … porci davanti alla nostra interiorità al suo rapporto con il passato, anche remoto … si può fare, è necessario, per me almeno. Attraverso le mie mani, che si fanno strada tra i meandri dell’esistente, nell’alterità, nelle visioni della psiche, nella sua memoria, nei desideri, nei suoi sogni, io finalmente compio il mio atto taumaturgico. Divento parte del tutto, mi riconnetto con la parte più viva di me, con la parte più autentica e traccio un ponte verso il sentiero dell’irrazionale, del simbolico, archetipico, che mi appartiene, che ci appartiene e possiamo riconoscerlo. Basta avere il tempo di guardarla in fondo agli occhi. Un filo di ferro è medium perfetto che abbraccia il vuoto, traccia percorsi nella mutevolezza del divenire crea un approdo che accolga ciò che è nascosto dentro di noi.»
Giovanni Carbone