Archivio Categoria: artista

Angela Forte

Angela Forte

 

Angela Forte nasce a Noto dove consegue la maturità classica. Dopo gli studi alla Facoltà di Scienze Politiche di Catania, si avvicina all’esperienza artistica frequentando inizialmente l’Accademia di Belle Arti. Nel 1996 frequenta dei corsi di pittura a Pisa e si dedica alla pittura su vetro, alla decorazione pittorica ed elementi d’arredo. Successivamente nella città natia, Noto, dirige un luogo di produzione artistica il “Caffè Artè”, mentre partecipa a diverse collettive d’arte: Milano,
Reggio Calabria, Malta. Ma le sue maschere, i suoi volti dell’anima, la conducono a fondare, con il regista Giorgio Benelli, la compagnia teatrale “Le cattive compagnie”.
Attualmente vive ed opera a Noto.

 

 

La fisiognomica e la pura scienza dell’essere e dell’esistere, della grammatica visiva, quella sperimentazione che Leonardo traduce in gesti e azioni “perché l’occhio è finestra dell’anima” (Leonardo, Codice Atlantico). La poliedricità dei volti e delle maschere della Forte (Uno, nessuno, centomila) rievocano un canovaccio scenico, quel Mistero buffo del giullare istrionico che Dario Fo traduce in immagine e parola, in cambiamenti segnici e facciali, che la nostra artista reinterpreta in una natura autobiografica. Una messa in scena, una platea, una piramide di corpi e di volti che ci invitano a riflettere sulla vita vissuta o interpretata, sull’essere e non essere, sull’agire o recitare, una poliedricità della commedia umana. I personaggi della Forte sono di una elegante e istrionica ironia di sé stessi, sono delicate umanità che conducono all’intrinseca narrazione dell’artista, genio delicato e “forte”: ogni grafia è segno, ogni tratto cromatico e acquerellato ci conduce in un dedalo di figure apparentemente astratte, ma che ci invitano ad una realtà altra, il mondo fantastico dell’artista.

Michele Romano

 

 
 

“Se il normale, il tradizionale e il magistrale equivalgono al bello, allora il raro, il notevole e il singolare devono equivalere al brutto. Viva la bruttezza, che crea la bellezza. Senza la bruttezza non esiste la bellezza, ma soltanto l’ovvietà, l’indifferenza, la noia. Il non-estetico non è il brutto, ma è il noioso”

Asger Jorn

 

 

 

 

 

 

Lucia Schettino

Lucia Schettino

 

Lucia Schettino, classe 88, nasce a Castellammare di Stabia. Artista multidisciplinare, le cui opere sono state esposte in numerose collettive. Laureata in grafica d’arte, presso l’Accademia di belle di Napoli e susseguita la laurea breve, s’iscrive al master triennale in Arti Terapie, presso “Artiterapeutiche di Napoli”. Ha recentemente conseguito il diploma in Scultura presso l’Accademia di Belle Arti di Napoli. È inoltre specializzata in Arti terapie e opera regolarmente in questo campo disciplinare grazie alla realizzazione di laboratori e workshop. Le occasioni espositive che la vedono coinvolta si concentrano in ambito collettivo e territoriale; si segnala la mostra Kemè Project, realizzata nel Macellum / Tempio di Serapide di Pozzuoli, in cui Schettino propone un’installazione in terracotta e ferro dal titolo Visione di un’invasione, concepita appositamente per lo spazio archeologico.Attualmente vive e lavora a Napoli presso il suo studio Atelier Alifuoco.

 

 

Statement

L’istinto, il processo, la trasformazione, sono le parole chiave che da sempre hanno accompagnato la mia ricerca. In questo progetto mi sono focalizzata principalmente sulle evoluzioni emozionali e materiche; emozioni “primordiali” come la paura, il dolore, il piacere, s’incarnano in una genesi bestiaria, incorporando nelle opere, la natura violenta e animalesca dell’uomo. Una serie di sculture dalle forme antropomorfe in trasformazione; aperte, graffiate, cadenti e in equilibrio instabile, ricreano ed enfatizzano tramite l’utilizzo di materiali industriali e naturali, come gesso, schiuma poliuretanica, legno e cera, l’esperienza psicologica ed emozionale dell’essere umano.

 

 
 

L’osso è simbolo di fermezza e virtù. É l’elemento permanente primordiale dell’essere; perciò il nocciolo di immortalità, il luz (mandorla) shih – Li, sono ossa molto dure. La contemplazione dello scheletro da parte degli sciamani è una sorta di ritorno allo stato primordiale attraverso la spoliazione degli elementi deperibili del corpo.

 

 

 

 

https://www.instagram.com/lucia_schettino_studio/

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Konrad Hofer

Konrad Hofer

 

Konrad Hofer è nato nel 1928 a Langenau, nell’Emmental.
Fin da piccolo la sua grande passione era la pittura.
Nel 1949 si trasferisce a Basilea.
Nei primi anni della sua carriera ricevette molte borse di studio che gli permisero di dipingere senza doversi dedicare ad altra attività.
Trascorse sempre lunghi periodi in Provenza, dove possedeva una casa per le vacanze; questi paesaggi ebbero una forte influenza sulla sua pittura.
La tecnica pittorica: principalmente a olio, – acrilico e inchiostro, disegni e bassorilievi in legno.
Ha avuto innumerevoli mostre in varie gallerie e grandi commissioni per opere d’arte su edifici (murales, vetrate, mosaici e rilievi in legno o metallo o pietra).
È morto nel 2006 dopo una lunga malattia.

Konrad Hofer wurde 1928 in Langenau im Emmental geboren.
Schon als kleines Kind war seine grosse Leidenschaft das Malen.
1949 zog er nach Basel. Er bekam, in der ersten zeit seiner Tätigkeit, viele Stipendien, die ihm, unteranderem, das Malen, ohne Nebenerwerb, ermöglichten.
Immer wieder längere Aufenthalte in der Provence wo er ein Ferienhaus besass, da diese Landschaften ihn in seiner Malerei stark prägten.
Die Maltechnik: hauptsächlich mit Öl, – Acryl, und Tusche, Zeichnungen und Relief aus Holz entstanden.
Er hatte unzählige Ausstellungen in div. Galerien und grosse Aufträge für Kunst am Bau (Wandbilder, Glasmalerei, Mosaik und Relief aus Holz oder Metal oder Stein)
2006 verstarb er nach längerer Krankheit.

 

Il colore suggerisce la percezione della vita. (O il contrario?)

Konrad Hofer, era nato nel 1928 e cresciuto nella zona rurale di Langenau, nell’Emmental, dove l’ambizione più grande era diventare macchinisti, direttori di banca o piloti. Non per Konrad Hofer. Lui sognava fin da piccolo l’utilizzo del pennello, seguire la linea del disegno per cui intraprese la via dell’arte.
Nel 1949 si trasferì a Basilea, dove trovò il terreno fertile nella cultura degli anni ’60 e ’70 per sviluppare il suo talento. Le tante esposizioni nelle diverse gallerie vissero attraverso le impressioni della sua vita, espresse dai suoi dipinti dai colori terrosi.
Possiamo ancora ammirare i suoi dipinti e rilievi in varie università, edifici bancari e spazi pubblici.
Konrad Hofer apparteneva alla classe popolare, un artigiano, un artista della vita, un uomo libero. Non si è mai asservito al sistema, con un impiego da insegnante come altri suoi colleghi, anche se questo gli avrebbe reso la vita più semplice.

Era un uomo socievole che si sentiva a suo agio nella cerchia degli amici e familiari. Per dipingere però aveva bisogno di calma e solitudine: si sedeva lasciando che il mondo gli scorresse accanto per assorbirne le impressioni con tutti i sensi attivi e trasmettere nella tela le sue visioni.
La Provenza fu fonte inesauribile di ispirazione: paesaggi, dolci colline, mandrie di bovini, formazioni rocciose. I vigneti come personale elisir di lunga vita, argomento di incontri, guida attraverso le stagioni, si manifestavano sulla tela.

Dalle cave portava a casa non solo le immagini figurative, ma anche la sabbia che utilizzava per conferire una sorta di autenticità ai suoi dipinti. Ha collegato terra e cielo con lunghe pennellate orizzontali, con l’uso di matite, mentre per le rocce ha scelto toni acrilici, aspri. Realtà del quotidiano? Certo, ma da buon bernese riflessivo, trascurava il casuale, l’oscuro. Però andava fino in fondo ai fenomeni, dove questi rivelano l’essenziale, l’unico.
In lunghe riflessioni in studio, su più temi, elaborò la capacità significante di un paesaggio, di una cava, di una formazione montuosa.

Il suo quotidiano era piacevolmente rituale, la porta del suo studio sempre aperta, familiare. All’interno il fascino del professionista libero, le prove pittoriche di un lavoro costante e la calda aura di Konrad Hofer persona. È difficile sfuggire a questa formula unica. Riceveva con la stessa cordialità i direttori di banca e gli umili: si trattava di ghiotte occasioni per scegliere una bottiglia di rosso durante le gradite visite in studio e permettere ai visitatori di gettare uno sguardo sulla sua vita dipinta nell’anima.
Il suo miglior marketing era la sua essenza (anche se la parola marketing gli era del tutto estranea!).
I suoi quadri: pieni di densità d’impressioni, un’intera tavolozza di percezioni sensoriali, colori del silenzio che hanno tanto da raccontare, ubriachi di vita. Senza tempo.

 

 

 

Il Bramante

Il Bramante

 

Il Bramante (alias: Marco Noviello 1981), opera ad Albinea dove fonda nel 2010 OOOPStudio assieme ad Alessandro Grisendi creando, a fianco di differenti realtà artistiche a livello internazionale, progetti per il teatro, per la musica, festival e performance.
Dalla scultura al video la connessione che si presenta come sogno.
Il tentativo di suggestione è questo: originando da materie prime e forme essenziali che ricompongo formando altro e assumendo, nella forma del sogno, il desiderio non solo di sembrare, ma di essere qualcosa d’altro, stratificando materie e visioni l’opera muta continuamente il proprio aspetto per mantenersi in una rivoluzione perenne ed eternamente vitale, inestinguibile.
Partendo quindi da materie povere, destinate al macero, utilizzando scarti come base, cerco di dar loro una nuova forma, colore e peso: una materia diversa che cambi continuamente nel tempo e inducendo un ulteriore rivoluzione mescolandole con il video, ricomponendole tra di loro, integrandole tramite la progettazione al contesto in cui son poste. A volte diventano soggetti, a volte sfondi, ma comunque co-protagonisti di una narrazione; trasponendo i soggetti che da scultorei diventano eterei componenti di un sogno, di un viaggio all’interno dell’animo umano. Ed è quindi da questa bramosia di ingannare, stratificando le materie e la fantasia delle visioni che si permette all’opera di poter cambiare ancora di aspetto per mantenerla in una condizione perennemente vitale.
In questo, l’approccio scenografico è ben oltre la frivola decorazione, ma si ricerca un’esperienza visiva e tattile nella quale è bene lasciarsi sprofondare tra le superfici ruvide, nell’alternanza delle forme morbide e pungenti, dove l’incontro con la materia è un incontro primitivo con le proprie sensazioni, primo luogo di conoscenza del mondo. E mentre si fa esperienza dell’opera, come del reale, continua il gioco della rappresentazione.

testo di Silvia Nonaizzi

L’atto del plasmare condensa in sé tutto il lavoro dell’artista in un’opera in cui ancora contano il materico e la materialità, in cui ogni sostanza è impastata fino all’imbroglio della trasformazione di un sogno che assume fattezze tangibili. Partendo dalla materia prima e da forme essenziali, Il Bramante ferma il flusso onirico, ne congela una visione o ne condensa molte trasformando l’astratto inafferrabile in qualcosa di palpabile: è una manipolazione di idee in cui il fare garantisce l’esistenza corporea di un miraggio. La sostanza prende forma e si concretizza tramite la mano dell’artista illusionista che ne altera l’essenza conferendo un nuovo aspetto, inedite e destabilizzanti sembianze.
Il concetto di materia e l’utilizzo che l’artista ne fa sono tutt’altro che irrilevanti: i materiali poveri, scarti destinati al macero, sono la base di partenza a cui le mani daranno nuova forma, colore e peso creando narrazioni. Le superfici ruvide si alternano a morbide curve, dettagli sferzanti creano ombre fendendo la luce.[ materia:
/ma·tè·ria/
sostantivo femminile
Entità provvista di una propria consistenza fisica, dotata di peso e di inerzia, capace di adeguarsi a una forma; concepita di volta in volta come sostrato concreto e differenziato degli oggetti o delle sostanze o come principio considerato passivo nei confronti della “forma” o antagonisticamente contrapposto allo “spirito”. ]Ed è quindi da questa bramosia di ingannare stratificando materia e visione che l’artista mistifica le forme e crea illusioni, concedendo all’opera un mutamento perpetuo che la mantiene in una condizione perennemente vitale. La creazione non è mai definitiva: è completa ma non finita poiché le è ancora concesso di cambiare. Gli effetti del tempo su elementi suscettibili al suo trascorrere operano una rivoluzione incessante e donano vita eterna.[visione:
/vi·ṣió·ne/
sostantivo femminile
1. Percezione degli stimoli luminosi
2. Idea, concetto, quadro.]

Questo avvilupparsi tra materia e sogno trova la propria dimensione nello spazio virtuale che, paradossalmente, rende fattuale l’onirico consacrando la visione tramite il visivo. Il video è documentatore e opera stessa che ritrae i soggetti, le inedite forme, e crea la trama del sogno; non è solo un mezzo che registra, ma un protagonista di questo gioco dell’eternità: dopo il divenire della materia, c’è il movimento e, ovvia conseguenza, l’infinita riproducibilità. Ecco il segreto di vita eterna: fisico e virtuale coesistono continuamente nell’opera del Bramante.

 

 

 

Antonella Giannone

Antonella Giannone

Antonella Giannone nasce a Modica nel 1990, frequenta prima il Liceo Artistico T.Campailla di Modica e successivamente l’Accademia di Belle Arti di Catania, conseguendo nel 2013 il Diploma Accademico di I livello in pittura e la Specialistica sempre in pittura nel 2016.
L’espressione pittorica dei suoi lavori è frutto di un’attenta introspezione psicologica dei sentimenti, sviluppando una tematica progettuale in divenire.
Nelle sue opere il concetto fondamentale è il contatto con le superfici che diventa generatore di memoria: una sorta di lettura tattile riprodotta attraverso una tecnica personale che le permette la creazione di rilievi e incisioni, trasfigurando e smaterializzando l’immagine, facendo apparire e scomparire immagini di oggetti e di forme note sin dalla nostra infanzia.
Altro ambito di interesse ed applicativo è la didattica dell’Arte, utilizzata per la sua valenza educativo e sociale, nella conduzione di laboratori artistici attivati sia nelle scuole che al Dipartimento di Salute Mentale.
Negli ultimi anni ha insegnato presso l’Accademia di Belle Arti “Mediterranea” di Ragusa.

Sono opere che non fermano l’istante, non lo rendono in narrazioni statiche, precise, permanenti, s’esprimono piuttosto come in una sequenza temporale dinamica. La natura corruttibile delle cose, infatti, ritiene in sé le orme del tempo che si stratificano diacronicamente: così, la traccia più recente non cancella le precedenti, talvolta le opacizza soltanto, sempre e solo per un periodo effimero, salvo poi esaltarle in qualsiasi altro momento, in una qualsiasi altra rilettura. Lo stesso tempo gioca con le cose degli uomini e, graffiando via gli strati superiori deposti al suo passaggio, ne mostra i precedenti nel gioco cromatico della sorpresa che l’opera di Antonella Giannone sa magnificamente disvelare.
La ricerca di Antonella Giannone pare prodursi dentro un percorso inesausto di esplorazione introspettiva, non smette mai di ripartire da qualcosa che, profittando di contributi esatti di memorie precise, di esperienze, si riappropria e ritiene i suoi colori. In questo è assai evidente come l’artista si sottragga agli stereotipi d’immaginari collettivi i cui sguardi distratti hanno reso la memoria in stinti grigi fastidiosi. Pure non partecipa ai formalismi consueti che in forma di presunte operazioni artistiche si fanno folklore. Al contrario crea l’effetto sublime e collaterale della messa a fuoco d’un Io che è fatto di memorie irrinunciabili, invisibili per chi è vittima inconsapevole del gioco d’inganno del tempo, per chi ha scelto la disillusione dell’accelerarsi quale pratica quotidiana, per chi si limita alla loro versione prêt-à-porter. Le atmosfere trasognate e soffuse sono richiamo a più attente esplorazioni, a ricerca mai esausta d’un cammino in cui il tempo interiore pare esprimersi in modo obliquo, non consueto, si fa cornice precisa di tutto e dell’esatto suo contrario, l’apparente nulla delle nebbie, dentro cui v’è l’esplosione d’ogni colore conosciuto.

SERGIO PODDIGHE

Sergio Poddighe

 

SERGIO PODDIGHE è nato a Palermo nel 1955. Si è diplomato al Liceo Artistico della sua città e in seguito presso l’Accademia di Belle Arti di Roma (corso di pittura). Ha insegnato Discipline Pittoriche presso il Liceo Artistico Statale, dal 1990 risiede ed opera ad Arezzo. Si è interessato agli aspetti simbolici e psicologici del segno grafico (per questo ha frequentato per un anno l’Istituto di Studi Grafologici di Urbino), come delle espressioni legate al mondo dell’illustrazione, del fumetto e della pubblicità. Ha prestato la sua opera per l’esecuzione di decorazioni, copertine di libri, manifesti legati a spettacoli ed eventi culturali. La sua ricerca pittorica si snoda attraverso percorsi espressivi diversi: dalla grafica, alla sintesi tra manipolazione digitale e pittura propriamente detta. Ha all’attivo numerose personali e partecipazioni a rassegne d’arte contemporanea in Italia e in Europa (Francia, Germania, Belgio, Svizzera, Austria, Romania, Croazia). Ha esposto in rassegne d’arte contemporanee in Usa (New York City, Houston, San Diego, Los Angeles), e al padiglione italiano di Art Basel Miami (edizione 2010); con i reduci di questa rassegna ha partecipato, in seguito, a “ Venti artisti internazionali a Palazzo Borromeo” , Milano. In Florida, inoltre, presso la contea di Walton, ha allestito due personali. Sue opere fanno parte d’innumerevoli collezioni private e pubbliche.

testo di Giovanni Carbone

I lavori di Poddighe sono la rappresentazione del contesto dei desideri umani e dell’uomo stesso come soggetti effimeri, metafora della parzialità dell’essere. L’uomo, dunque, è entità incompleta, mutilata, che rincorre l’effimero come unica vacua speranza compensativa. Riempie i propri vuoti creandone di nuovi, rincorre le proprie ansie costruendone di ulteriori, mai definitivamente consapevole del proprio progressivo allontanamento dalla concreta condizione umana. Proprio sulla condizione umana le opere suggeriscono una riflessione profonda, una riflessione ed un’analisi che possono essere affrontate da più punti di vista, poiché l’accettazione della complessità, quindi delle diverse angolazioni dell’osservazione è l’unico strumento attraverso cui è possibile costruire una prospettiva di ricomposizione dell’essere umano, a partire dalla constatazione della propria progressiva mutilazione.

 

Sergio Poddighe was born in Palermo in 1955, he graduated from the art high school of his city and from the Academy of Fine Arts in Rome (painting course). He taught many years Fine Arts at the Art High School of Arezzo (Tuscany), a city where he has lived and worked since 1990. He was intrigued the symbolic and psychological aspects of the graphic sign (for this reason he attended the Institute of Graphological Studies of Urbino for a year), and looked with interest at expressions related to the world of illustration, comics and advertising. He lent his work for the execution of art decorations, book covers illustration, posters related to shows and cultural events, theatrical sets. He has numerous solo shows and participations in contemporary art exhibitions in : Italy, United States ,France, Belgium, Switzerland, Germany, Austria, Croatia, Romania . His works are part of countless private and public collections.

UNICA

UNICA

testo di Giovanni Carbone

UNICA ( Leonie Adler ) è artista contemporanea, nata a Pune, in India, con radici irlandesi, è cresciuta e vive in Svizzera. La sua anagrafica non è, come appare dalle sue realizzazioni, un dato neutro, un timbro su un passaporto, è elemento pregnante della sua formazione artistica. Infatti, le sue forme geometriche esatte, disegni ad ago e filo, esprimono un’attrazione fatale per l’ambiente, lo interpretano quale contenitore di culture, ella stessa è consapevolmente scrigno di diversità che si uniscono ad ogni passaggio d’ordito. Il contrasto cromatico tra le sue forme ne evidenzia il desiderio di riscoperta, induce alla ricerca d’un viaggio intimo nello spazio e nel tempo attraverso traiettorie spiazzanti, un susseguirsi di cambiamenti repentini di direzione, quasi a voler significare la ricerca precisa del dettaglio, il non volersi precludere nulla che le appartiene, che appartiene al tutto d’intorno.

Ma è anche desiderio di fuga da quotidiani standardizzati e labirintici, il rifiuto di direzioni preconfezionate, della banalità prêt-à-porter. Nonostante la scelta del filo, dell’ago, dunque, Unica non rassomiglia affatto alla più celebre delle tessitrici, non è Penelope, i suoi complessi intrecci non sono trame che si sfilacciano, si scuciono, ma memoria di una direzione precisa ancorché mai scontata, flusso di informazioni che non si esaurisce ma che fa d’ogni passaggio condizione essenziale per l’esistenza del successivo. Rassomiglia ad Arianna, invece, i suoi orditi indicano percorsi salvifici di liberazione, includono la possibilità del ritorno. In quel tornare a casa, alle sue radici, come nelle articolazioni più complesse dell’intimo, non v’è mai ricerca appagante di staticità, d’un passato che invecchiato si trasforma in presente, ma la prospettiva d’un nuovo viaggio, di nuove esperienze che, a paradosso di apparenza d’accumulo, lo rendano ogni volta più leggero, più agile.

Pare che Unica si ricerchi, si ritrovi, infine, nelle sue origini, nelle sue infinite discendenze, e su quelle può contare – paesaggi della memoria d’un vissuto – come intensa scarica emozionale per una nuova ripartenza. In buona parte autodidatta, ha tuttavia assorbito perfettamente le prospettive artistiche di Louise Bourgeoise e dell’artista tessile svizzera Lissy Funk.

È anche membro dell’associazione artistica GAAL.

 

UNICA ( Leonie Adler ) is a contemporary artist, born in Pune, India, with Irish roots, grew up and lives in Switzerland. His registry is not, as appears from his creations, a neutral data, a stamp on a passport, he is a meaningful element of his artistic training. In fact, its exact geometric shapes, needle and thread designs, express a fatal attraction for the environment, interpret it as a container of cultures, she herself is consciously a casket of diversity that unites with each passage of warp. The chromatic contrast between its forms highlights its desire for rediscovery, leads to the search for an intimate journey through space and time through surprising trajectories, a succession of sudden changes of direction, as if to mean the precise search for detail, not wanting to preclude anything that belongs to it, which belongs to the whole.

But it is also a desire to escape from standardized and labyrinthine newspapers, the refusal of pre-packaged directions, of prêt-à-porter banality. Despite the choice of the thread, the needle, therefore, the only one does not resemble the most famous of the weavers at all, it is not Penelope, its complex weaves are not weaves that fray, they unstitch, but memory of a precise direction even if never taken for granted, a flow of information that does not end but that makes every passage essential condition for the existence of the next. It resembles Ariadne, however, his warps indicate salvific paths of liberation, include the possibility of returning. In that returning home, at its roots, as in the most complex articulations of the intimate, there is never a fulfilling search for static, a past that aged turns into the present, but the prospect of a new journey, new experiences that, paradoxically, make it more agile.

It seems that unique is sought, finally, in its origins, in its infinite descendants, and on those it can count – landscapes of the memory of a lived experience – as an intense emotional discharge for a new restart. In large part self-taught, however, he perfectly absorbed the artistic prospects of Louise Bourgeoise and the Swiss textile artist Lissy Funk. She is also a member of the Gaal Artistic Association.

 

Raffaello De Vito

Raffaello De Vito

Raffaello De Vito vive e lavora in Italia tra Reggio Emilia e Modena.

Si avvicina alla fotografia all’età di 12 anni e a 14 inizia il suo percorso formativo in uno studio di fotografia pubblicitaria, esperienza che lo porterà a confrontarsi con diversi professionisti del settore e con importanti aziende presenti sul mercato internazionale.

Alla fine degli anni Ottanta inizia una collaborazione come assistente alla produzione con Luigi Ghirri, collaborazione che si interrompe nel 1991 con la prematura scomparsa del grande fotografo e che ha dato inizio a una ricerca visiva che esplora ancora oggi.
Un costante lavoro di semplificazione, di sottrazione e di sintesi verso un linguaggio universale immediatamente comprensibile.

Ha al suo attivo diverse esposizioni in Svizzera, Francia, Spagna, Inghilterra e Italia oltre a numerose pubblicazioni nei siti web di tutto il mondo.

Nuove famiglie

NUOVE FAMIGLIE

 

Raffaello De Vito è fotografo raffinato, dotato di grande tecnica, padronanza degli strumenti. Ma non ne fa uso consueto, non ricerca perfezione d’immagini e basta, studia, concepisce, elabora narrazioni complesse….

De Vito centra la quinta scenografica della vicenda nell’estremo miserabile del mondo degli ultimi, ma non ne fa riproposizione compassionevole, pietistica. Ne disvela piuttosto l’essenza materiale, non indugia in infingimenti, nemmeno produce moralismi…… ( Giovanni Carbone )

Le atrocità sollevano unindignazione minore, quanto più le vittime sono dissimili dai normali lettori, quanto più sono more”, sudice”, dago. Questo fatto illumina le atrocità non meno che le reazioni degli spettatori. (…) Laffermazione ricorrente che i selvaggi, i negri, i giapponesi, somigliano ad animali, o a scimmie, contiene già la chiave del pogrom. Della cui possibilità si decide nellistante in cui locchio di un animale ferito a morte colpisce luomo. Lostinazione con cui egli devia da sé quello sguardo – “non è che un animale” – si ripete incessantemente nelle crudeltà commesse sugli uomini, in cui gli esecutori devono sempre di nuovo confermare a se stessi il non è che un animale”, a cui non riuscivano a credere neppure nel caso dellanimale. Nella società repressiva il concetto stesso delluomo è la parodia delluguaglianza di tutto ciò che è fatto ad immagine di Dio. Fa parte del meccanismo della proiezione morbosa” che i detentori del potere avvertano come uomo solo la propria immagine, anziché riflettere lumano proprio come il diverso”. (Theodor Adorno)

Aldo Giovannini / alkreado

Aldo Giovannini / alkreado

Aldo Giovannini nasce a Bologna nel ’67.
Artista polivalente forma un proprio percorso improntato sulla sperimentazione di diversi ambiti espressivi nella ricerca scultorea svincolata dai canoni accademici, nella messa in opera di installazioni interattive, nella progettazione e realizzazione di scenografie e arredi urbani e nella produzione di oggetti di design. Ha operato soprattutto a Bologna, ma anche Firenze e Milano. Trasferitosi da alcuni anni in Sicilia il suo lavoro si è sviluppato tra Catania, Noto, Modica e Siracusa, dove si è stabilito in modo permanente aprendo un suo atelier di scultura .

 

Tempo e Psiche

Il mondo abitato dall’uomo moderno è ormai denso, saturo, di immagini e suoni,… si accavallano tra loro , entrano dentro di noi e non ci danno il tempo di metabolizzare ciò che si portano con sé . La dimensione temporale si è compressa, impedendoci di trovare una “risposta”, siamo perciò portati a divenire soggetti passivi, spettatori di una quantità impressionante di sollecitazioni .

Fermare il tempo o almeno rallentarlo … porci davanti alla nostra interiorità al suo rapporto con il passato, anche remoto … lo si può fare, è necessario farlo per me almeno,….attraverso le mie mani, che si fanno strada tra i meandri dell’esistente, nell’alterità, nelle visioni della psiche nella sua memoria, nei desideri, nei suoi sogni io finalmente compio il mio atto taumaturgico, divento parte del tutto, mi riconnetto con la parte più viva di me con la parte più autentica, traccio un ponte verso il sentiero dell’irrazionale, del simbolico, archetipico  che mi appartiene, che ci appartiene, la possiamo riconoscere basta avere il tempo di guardarla in fondo agli occhi.

( Aldo Giovannini )

 

Luciana Perego

Luciana Perego

“Mi appassiona il tema del vuoto quale dimensione in cui le cose accadono, dove il movimento è possibile. Un luogo di risonanza, capace di stimolare la percezione del sacro; un non-luogo spirituale, abissale, dal quale si tenta la fuga attraverso il consumo; uno spazio, al nostro tempo, necessario all’emersione della singola parola e il suo etimo.

I “contenitori del vuoto” attraverso la forma e l’armonia dei colori, esercitano attrazione sulle emozioni; catturano, per poi trattenere dentro il loro impalpabile contenuto.   Giocarci, significa fare spazio alla parola che risuona, quella che vuole essere compresa, mentre il contatto con l’argilla infonde quiete.

La mia produzione è considerevolmente limitata: evito di usare macchine o stampi. Ogni pezzo, creato a lastra, a colombino o con un tornio manuale risponde del momento, dello stato d’animo. Ciò richiede tempo e costringe ad una continua progettazione ma concede un rapporto musicale con la materia, smuove il vissuto, invita a dargli forma e un nome.

Utilizzo l’argilla quale strumento per lavorare con le emozioni: ho messo a punto un particolare modulo di “manipolazione sensoriale”, sapendo che l’argilla, per provenienza dal regno minerale, induce alla quiete e che, per sua natura assorbe e rilascia, favorendo un processo di fioritura

Conosco il fascino dello sperimentare con il fumo e il fuoco, che sono giochi e improvvisazioni tipiche del fare ceramica Raku: essa mi affascina, sorprendente nei risultati cromatici, inattesi, a volte migliori della stessa aspettativa; indomabile nel suo essere materia assorbente esposta all’affumicatura.

Del fare ceramica, penso che non esiste limite alle possibilità. La ceramica è antropologicamente dentro di noi, da sempre accompagna la storia dell’uomo. A lei, spesso mi affido per dare consistenza al mio sentire, sapendo che, come l’acqua, può assumere qualsiasi forma e, in più, la mantiene nel tempo.”

Luciana Perego vive e lavora a Ispica in provincia di Ragusa