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Angela Forte

Angela Forte

 

Angela Forte nasce a Noto dove consegue la maturità classica. Dopo gli studi alla Facoltà di Scienze Politiche di Catania, si avvicina all’esperienza artistica frequentando inizialmente l’Accademia di Belle Arti. Nel 1996 frequenta dei corsi di pittura a Pisa e si dedica alla pittura su vetro, alla decorazione pittorica ed elementi d’arredo. Successivamente nella città natia, Noto, dirige un luogo di produzione artistica il “Caffè Artè”, mentre partecipa a diverse collettive d’arte: Milano,
Reggio Calabria, Malta. Ma le sue maschere, i suoi volti dell’anima, la conducono a fondare, con il regista Giorgio Benelli, la compagnia teatrale “Le cattive compagnie”.
Attualmente vive ed opera a Noto.

 

 

La fisiognomica e la pura scienza dell’essere e dell’esistere, della grammatica visiva, quella sperimentazione che Leonardo traduce in gesti e azioni “perché l’occhio è finestra dell’anima” (Leonardo, Codice Atlantico). La poliedricità dei volti e delle maschere della Forte (Uno, nessuno, centomila) rievocano un canovaccio scenico, quel Mistero buffo del giullare istrionico che Dario Fo traduce in immagine e parola, in cambiamenti segnici e facciali, che la nostra artista reinterpreta in una natura autobiografica. Una messa in scena, una platea, una piramide di corpi e di volti che ci invitano a riflettere sulla vita vissuta o interpretata, sull’essere e non essere, sull’agire o recitare, una poliedricità della commedia umana. I personaggi della Forte sono di una elegante e istrionica ironia di sé stessi, sono delicate umanità che conducono all’intrinseca narrazione dell’artista, genio delicato e “forte”: ogni grafia è segno, ogni tratto cromatico e acquerellato ci conduce in un dedalo di figure apparentemente astratte, ma che ci invitano ad una realtà altra, il mondo fantastico dell’artista.

Michele Romano

 

 
 

“Se il normale, il tradizionale e il magistrale equivalgono al bello, allora il raro, il notevole e il singolare devono equivalere al brutto. Viva la bruttezza, che crea la bellezza. Senza la bruttezza non esiste la bellezza, ma soltanto l’ovvietà, l’indifferenza, la noia. Il non-estetico non è il brutto, ma è il noioso”

Asger Jorn

 

 

 

 

 

 

Lucia Schettino

Lucia Schettino

 

Lucia Schettino, classe 88, nasce a Castellammare di Stabia. Artista multidisciplinare, le cui opere sono state esposte in numerose collettive. Laureata in grafica d’arte, presso l’Accademia di belle di Napoli e susseguita la laurea breve, s’iscrive al master triennale in Arti Terapie, presso “Artiterapeutiche di Napoli”. Ha recentemente conseguito il diploma in Scultura presso l’Accademia di Belle Arti di Napoli. È inoltre specializzata in Arti terapie e opera regolarmente in questo campo disciplinare grazie alla realizzazione di laboratori e workshop. Le occasioni espositive che la vedono coinvolta si concentrano in ambito collettivo e territoriale; si segnala la mostra Kemè Project, realizzata nel Macellum / Tempio di Serapide di Pozzuoli, in cui Schettino propone un’installazione in terracotta e ferro dal titolo Visione di un’invasione, concepita appositamente per lo spazio archeologico.Attualmente vive e lavora a Napoli presso il suo studio Atelier Alifuoco.

 

 

Statement

L’istinto, il processo, la trasformazione, sono le parole chiave che da sempre hanno accompagnato la mia ricerca. In questo progetto mi sono focalizzata principalmente sulle evoluzioni emozionali e materiche; emozioni “primordiali” come la paura, il dolore, il piacere, s’incarnano in una genesi bestiaria, incorporando nelle opere, la natura violenta e animalesca dell’uomo. Una serie di sculture dalle forme antropomorfe in trasformazione; aperte, graffiate, cadenti e in equilibrio instabile, ricreano ed enfatizzano tramite l’utilizzo di materiali industriali e naturali, come gesso, schiuma poliuretanica, legno e cera, l’esperienza psicologica ed emozionale dell’essere umano.

 

 
 

L’osso è simbolo di fermezza e virtù. É l’elemento permanente primordiale dell’essere; perciò il nocciolo di immortalità, il luz (mandorla) shih – Li, sono ossa molto dure. La contemplazione dello scheletro da parte degli sciamani è una sorta di ritorno allo stato primordiale attraverso la spoliazione degli elementi deperibili del corpo.

 

 

 

 

https://www.instagram.com/lucia_schettino_studio/

https://www.threads.net/@lucia_schettino_studio

 

OUTSIDER ART

Quattro artisti outsider di tre paesi differenti

Silvia Messerli, Berna – Svizzera

Angelo Modica, Modica – Italia

Malik Mané, Dakar – Senegal

Grazia Ferlanti, Modica Italia

INTERVENTO di Domenico Amoroso
Storico dell’arte, fondatore della sezione Outsider Art del MAC di Caltagirone,
Membro comitato scientifico dell’ Osservatorio Outsider Art ( OOA )
 

22 MARZO 2024 – 15 APRILE

Abbiamo il piacere di aprire la nuova stagione 2024 presso L’A/telier di Modica Alta con una mostra speciale di quattro artisti outsider di tre paesi differenti.

Un viaggio nella dimensione espressiva ed estetica di eccezione che mostra, senza filtri, quei fattori psichici naturali che sono alla base della creazione artistica e ne rivelano l’essenza originaria.
Un tipo di espressione che ha avuto la sua prima classificazione e riconoscimento grazie all’impegno di Jean Dubuffet, famoso pittore e scultore francese della prima metà del Novecento, il quale ha trovato e codificato la definizione di questa forma d’arte affrancata dalla “asphyxiante culture”: Art Brut.

Art Brut che nel 1972 lo storico inglese Roger Cardinal chiamò Outsider Art, nasce da uno spirito creatore, un impulso che non segue modelli, che ignora tecniche e materiali, che dà vita a uno stile personale e a un proprio vocabolario artistico, totalmente al di fuori dal mainstream culturale.

Non solo esposizione ma anche momento di riflessione profonda sui confini dell’arte, sull’essenza della creatività e sull’ambigua e complessa relazione tra l’essere umano e la sua opera.
Un evento interdisciplinare che unisce pittura, oggetti e scultura.

INTERNATIONAL CALL FOR MAIL ART

INTERNATIONAL CALL FOR MAIL ART

BANDO INTERNAZIONALE DI MAIL-ART

Mostra internazionale di Mail Art / Arte Postale

BORDERS / CONFINI

19.04.24  – 19.05.24

 

Vernissage 19.04.24 alle ore 19.30

Jam + Deriva sonora

KIRCHER ELETTRODOMESTICI
Maria Valentina Chirico – Stefano Balice ( Torino )

 

 

FRONTIERE / Borders

Per ognuno, la mail art è un’opportunità per creare arte non commerciale che sfugge ai canali consolidati di mediazione e commercializzazione.
Le cartoline sono composte da fotocopie, ritagli di giornale , francobolli selezionati e inviate a conoscenti. Con la sua mail art, Padhi Frieberger ha diffuso le preoccupazioni dei movimenti ecologisti e pacifisti e ha fatto riferimento a dibattiti politici. Soprattutto, però, polemizzava contro gli “pseudo-artisti “. Come mezzo sociale e politico, la mail art è stata anche un mezzo di resistenza nelle dittature dell’America Latina e dell’Europa orientale. Anche nell’era digitale, la mail art non viene inviata via e-mail. L’arte di piccolo formato è ancora molto popolare e rimane un mezzo analogico.
L’A/telier invita le artiste/i  a inviare le loro opere. Tutte le opere inviate saranno presentate sul sito in modo continuativo e presentate in una esposizione nel 2024.

Mail art, postcard art –

theme BORDERS / Confini

For everyone, mail art is an opportunity to create non-commercial art that escapes the established channels of mediation and commercialisation.
The postcards are made up of photocopies, newspaper clippings, selected stamps and sent to acquaintances. With his mail art, Padhi Frieberger has disseminated the concerns of ecological and pacifist movements and referred to political debates. Above all, however, he polemised against ‘pseudo-artists’.As a social and political medium, mail art was also a means of resistance in the dictatorships of Latin America and Eastern Europe. Even in the digital age, mail art is not sent by e-mail. Small-format art is still very popular and remains an analogue medium.
The A/telier invites artists to send in their works. All submitted works will be presented on the site on an ongoing basis and featured in an exhibition in 2024

Perego / Unica /Giannone /Giovannini/De Vito / Il Bramante/ Poddighe/ Modica /Hofer

Fino al 5 Marzo del 2024 è possibile visitare la mostra collettiva delle artiste e artisti che hanno esposto presso L’A/telier. Saranno inoltre esposte alcune litografie di Giuseppe Santomaso, Yves Laloy e Alan Davie.

Testo di Giovanni Carbone

“La rapidità dello sviluppo materiale del mondo è aumentata. Esso sta accumulando costantemente sempre più poteri virtuali mentre gli specialisti che governano le società sono costretti, proprio in virtù del loro ruolo di guardiani della passività, a trascurare di farne uso. Questo sviluppo produce nello stesso tempo un’insoddisfazione generalizzata ed un oggettivo pericolo mortale, nessuno dei quali può essere controllato in maniera durevole dai leader specializzati.” (Guy Debord, I Situazionisti e le nuove forme dell’arte e della politica)

 

Le arti non si parlano, non comunicano, si muovono in due direzioni precise, la narcisistica pretesa della propria superiorità l’una sull’altra, si trasformano pure, con protervia efficacissima, in manifestazioni elitarie. Pochissimi poeti ritengono di costruire dialoghi con pittori o scultori, il viceversa vale in misura eguale; rari fotografi immaginano un confronto alla pari con musicisti, e l’opposta direzione si realizza in medesima maniera, inquietante resistenza al confronto. Quando l’assioma della specializzazione ad ogni costo, del narcisismo patologico pare viene meno, è assai comune che finga solo sia così, ché il rapporto artistico non è orizzontale, frutto di dialettica, condivisione, progetto comune, diventa convincimento sacro ed inviolabile che “l’altro” abbia – si merita, meglio – una condizione didascalica, ruolo di insalatina intorno al piatto forte. Dunque, non nasce movimento transartistico, non esiste avanguardia fondata su idem sentire. Il confronto regredisce al nulla, rimane relegato a sacche resistenti ubicate forzosamente nell’oblio del no-social. Di più, l’arte diviene merce, l’artista è mercante che rimuove l’atto creativo per produrre serialità, salvo cambiarne l’identità in funzione del desiderio palesato del consumatore. Critici, gallerie, curatori non s’adeguano semplicemente, divengono artefici del declino, complici – inconsapevoli? – della regola ferrea dell’incomunicabilità, condizione fondante della specializzazione. Più l’osmosi artistica si impoverisce, più la qualità dell’arte regredisce a tratti di mera spazzatura, costruisce per sé la condizione di disperato germoglio su terre aride.

UNICA  LUCIANA PEREGO  ANGELO MODICA  SERGIO PODDIGHE  IL BRAMANTE  RAFFAELLO DE VITO  ANTONELLA GIANNONE  ALDO GIOVANNINI

Non esiste oggi possibilità alcuna che un Asger Jorn sorseggi vino in una bettola d’i ‘un paese di frontiera con Peggy Guggenheim in dialettica serrata con Debord, i Velvet Underground non vedranno più immagini warholiane sui loro dischi. Nessuno scriverà manifesti per nuove forme d’arte ché questa sarà progressivamente appannaggio di classi sociali che, al contempo, ne detengono il controllo e ne decretano la morte per asfissia da specializzazione. Nemmeno l’arte pare più espressione del tutto d’intorno, punto d’osservazione privilegiato su quello, lo evita anzi, perché se ne pretende, pure quando appare provocatoria ed eretica, una natura rassicurante un tanto al chilo. Questo credo, pure se v’è testimonianza di sacche di resistenza, tentativi di ribaltare lo stato di cose. Ce n’è di tali che portano arte nei non luoghi dell’arte, s’aprono frontiere d’emancipazione e di riscoperta d’umanità dove convenzioni non scritte non ne prevedono, che costruiscono le condizioni proprie della dialettica orizzontale tra le forme espressive, riportano l’arte ad altezza d’ogni individuo, senza pretesa di conoscerne il budget a disposizione.

Faccio tre con L’Altelier di Modica Alta, uno spazio espositivo dove non dovrebbe esserci, semplicemente anticamera d’una abitazione trasformata ad un uso condiviso, per ospitare arte, al centro d’un quartiere che non v’è preposto, popolare e vecchio, intriso di tradizione ma non abbastanza vicino a fasti da cartolina come quello più in basso. Vi si fermano rari turisti, quelli che sono adusi a esplorazioni faticose a percorrenza di vicoli stretti, dedali di stradine e scalinate erte, silenzi profondi, scarpinanti che s’attrezzano allo stupore dell’improvvisa apertura sul presepe di case. È quartiere dove la domenica presto puoi fare colazione con vino e bollito, dove puoi trascorrere serate sotto le scale d’una chiesa sempre con qualcosa da bere che non necessita di mutui a tasso d’usura a conto fatto. Basta mettere tre sedie fuori da quel posto e può fermarsi qualcuno ad occasionale passaggio, alla ricerca del belvedere con paesaggio mozzafiato, centro metri più avanti, che s’appassiona all’esposizione, si mette a discutere con lo sfondo del jazz di Miles o The Goldberg Variations di Bach suonata da Glenn Gould. Ma pure si ferma Peppe, custode dell’imponente chiesa prossima, birra e sigaretta in mano, oppure il vecchio don Angelo, un tempo abilissimo “mastro” di muri a secco, che s’accomoda con libro in mano o grappolo d’uva della sua vigna.

Ed a chiusura dello spazio, le convergenze evolutive, il progetto che pretende trasformazione, prosegue più giù, al fresco dello slargo, a tavola, incontro di sensibilità diverse, anche solo di chi semplicemente si trova attratto da conversazioni altre. È esperienza di sanità mentale, è progetto ricostruttivo, atto di resistenza estrema alla barbarie delle elité che pretendono pure di controllare e di guidare il senso, financo la percezione, della bellezza. Altre esperienze ci sono senz’altro, se cominciano a sentirsi, parteciparsi, creano discontinuità, la potentissima – e terribilmente fragile – società dello spettacolo non se lo può permettere.

Konrad Hofer

Konrad Hofer

 

Konrad Hofer è nato nel 1928 a Langenau, nell’Emmental.
Fin da piccolo la sua grande passione era la pittura.
Nel 1949 si trasferisce a Basilea.
Nei primi anni della sua carriera ricevette molte borse di studio che gli permisero di dipingere senza doversi dedicare ad altra attività.
Trascorse sempre lunghi periodi in Provenza, dove possedeva una casa per le vacanze; questi paesaggi ebbero una forte influenza sulla sua pittura.
La tecnica pittorica: principalmente a olio, – acrilico e inchiostro, disegni e bassorilievi in legno.
Ha avuto innumerevoli mostre in varie gallerie e grandi commissioni per opere d’arte su edifici (murales, vetrate, mosaici e rilievi in legno o metallo o pietra).
È morto nel 2006 dopo una lunga malattia.

Konrad Hofer wurde 1928 in Langenau im Emmental geboren.
Schon als kleines Kind war seine grosse Leidenschaft das Malen.
1949 zog er nach Basel. Er bekam, in der ersten zeit seiner Tätigkeit, viele Stipendien, die ihm, unteranderem, das Malen, ohne Nebenerwerb, ermöglichten.
Immer wieder längere Aufenthalte in der Provence wo er ein Ferienhaus besass, da diese Landschaften ihn in seiner Malerei stark prägten.
Die Maltechnik: hauptsächlich mit Öl, – Acryl, und Tusche, Zeichnungen und Relief aus Holz entstanden.
Er hatte unzählige Ausstellungen in div. Galerien und grosse Aufträge für Kunst am Bau (Wandbilder, Glasmalerei, Mosaik und Relief aus Holz oder Metal oder Stein)
2006 verstarb er nach längerer Krankheit.

 

Il colore suggerisce la percezione della vita. (O il contrario?)

Konrad Hofer, era nato nel 1928 e cresciuto nella zona rurale di Langenau, nell’Emmental, dove l’ambizione più grande era diventare macchinisti, direttori di banca o piloti. Non per Konrad Hofer. Lui sognava fin da piccolo l’utilizzo del pennello, seguire la linea del disegno per cui intraprese la via dell’arte.
Nel 1949 si trasferì a Basilea, dove trovò il terreno fertile nella cultura degli anni ’60 e ’70 per sviluppare il suo talento. Le tante esposizioni nelle diverse gallerie vissero attraverso le impressioni della sua vita, espresse dai suoi dipinti dai colori terrosi.
Possiamo ancora ammirare i suoi dipinti e rilievi in varie università, edifici bancari e spazi pubblici.
Konrad Hofer apparteneva alla classe popolare, un artigiano, un artista della vita, un uomo libero. Non si è mai asservito al sistema, con un impiego da insegnante come altri suoi colleghi, anche se questo gli avrebbe reso la vita più semplice.

Era un uomo socievole che si sentiva a suo agio nella cerchia degli amici e familiari. Per dipingere però aveva bisogno di calma e solitudine: si sedeva lasciando che il mondo gli scorresse accanto per assorbirne le impressioni con tutti i sensi attivi e trasmettere nella tela le sue visioni.
La Provenza fu fonte inesauribile di ispirazione: paesaggi, dolci colline, mandrie di bovini, formazioni rocciose. I vigneti come personale elisir di lunga vita, argomento di incontri, guida attraverso le stagioni, si manifestavano sulla tela.

Dalle cave portava a casa non solo le immagini figurative, ma anche la sabbia che utilizzava per conferire una sorta di autenticità ai suoi dipinti. Ha collegato terra e cielo con lunghe pennellate orizzontali, con l’uso di matite, mentre per le rocce ha scelto toni acrilici, aspri. Realtà del quotidiano? Certo, ma da buon bernese riflessivo, trascurava il casuale, l’oscuro. Però andava fino in fondo ai fenomeni, dove questi rivelano l’essenziale, l’unico.
In lunghe riflessioni in studio, su più temi, elaborò la capacità significante di un paesaggio, di una cava, di una formazione montuosa.

Il suo quotidiano era piacevolmente rituale, la porta del suo studio sempre aperta, familiare. All’interno il fascino del professionista libero, le prove pittoriche di un lavoro costante e la calda aura di Konrad Hofer persona. È difficile sfuggire a questa formula unica. Riceveva con la stessa cordialità i direttori di banca e gli umili: si trattava di ghiotte occasioni per scegliere una bottiglia di rosso durante le gradite visite in studio e permettere ai visitatori di gettare uno sguardo sulla sua vita dipinta nell’anima.
Il suo miglior marketing era la sua essenza (anche se la parola marketing gli era del tutto estranea!).
I suoi quadri: pieni di densità d’impressioni, un’intera tavolozza di percezioni sensoriali, colori del silenzio che hanno tanto da raccontare, ubriachi di vita. Senza tempo.

 

 

 

Il Bramante

Il Bramante

 

Il Bramante (alias: Marco Noviello 1981), opera ad Albinea dove fonda nel 2010 OOOPStudio assieme ad Alessandro Grisendi creando, a fianco di differenti realtà artistiche a livello internazionale, progetti per il teatro, per la musica, festival e performance.
Dalla scultura al video la connessione che si presenta come sogno.
Il tentativo di suggestione è questo: originando da materie prime e forme essenziali che ricompongo formando altro e assumendo, nella forma del sogno, il desiderio non solo di sembrare, ma di essere qualcosa d’altro, stratificando materie e visioni l’opera muta continuamente il proprio aspetto per mantenersi in una rivoluzione perenne ed eternamente vitale, inestinguibile.
Partendo quindi da materie povere, destinate al macero, utilizzando scarti come base, cerco di dar loro una nuova forma, colore e peso: una materia diversa che cambi continuamente nel tempo e inducendo un ulteriore rivoluzione mescolandole con il video, ricomponendole tra di loro, integrandole tramite la progettazione al contesto in cui son poste. A volte diventano soggetti, a volte sfondi, ma comunque co-protagonisti di una narrazione; trasponendo i soggetti che da scultorei diventano eterei componenti di un sogno, di un viaggio all’interno dell’animo umano. Ed è quindi da questa bramosia di ingannare, stratificando le materie e la fantasia delle visioni che si permette all’opera di poter cambiare ancora di aspetto per mantenerla in una condizione perennemente vitale.
In questo, l’approccio scenografico è ben oltre la frivola decorazione, ma si ricerca un’esperienza visiva e tattile nella quale è bene lasciarsi sprofondare tra le superfici ruvide, nell’alternanza delle forme morbide e pungenti, dove l’incontro con la materia è un incontro primitivo con le proprie sensazioni, primo luogo di conoscenza del mondo. E mentre si fa esperienza dell’opera, come del reale, continua il gioco della rappresentazione.

testo di Silvia Nonaizzi

L’atto del plasmare condensa in sé tutto il lavoro dell’artista in un’opera in cui ancora contano il materico e la materialità, in cui ogni sostanza è impastata fino all’imbroglio della trasformazione di un sogno che assume fattezze tangibili. Partendo dalla materia prima e da forme essenziali, Il Bramante ferma il flusso onirico, ne congela una visione o ne condensa molte trasformando l’astratto inafferrabile in qualcosa di palpabile: è una manipolazione di idee in cui il fare garantisce l’esistenza corporea di un miraggio. La sostanza prende forma e si concretizza tramite la mano dell’artista illusionista che ne altera l’essenza conferendo un nuovo aspetto, inedite e destabilizzanti sembianze.
Il concetto di materia e l’utilizzo che l’artista ne fa sono tutt’altro che irrilevanti: i materiali poveri, scarti destinati al macero, sono la base di partenza a cui le mani daranno nuova forma, colore e peso creando narrazioni. Le superfici ruvide si alternano a morbide curve, dettagli sferzanti creano ombre fendendo la luce.[ materia:
/ma·tè·ria/
sostantivo femminile
Entità provvista di una propria consistenza fisica, dotata di peso e di inerzia, capace di adeguarsi a una forma; concepita di volta in volta come sostrato concreto e differenziato degli oggetti o delle sostanze o come principio considerato passivo nei confronti della “forma” o antagonisticamente contrapposto allo “spirito”. ]Ed è quindi da questa bramosia di ingannare stratificando materia e visione che l’artista mistifica le forme e crea illusioni, concedendo all’opera un mutamento perpetuo che la mantiene in una condizione perennemente vitale. La creazione non è mai definitiva: è completa ma non finita poiché le è ancora concesso di cambiare. Gli effetti del tempo su elementi suscettibili al suo trascorrere operano una rivoluzione incessante e donano vita eterna.[visione:
/vi·ṣió·ne/
sostantivo femminile
1. Percezione degli stimoli luminosi
2. Idea, concetto, quadro.]

Questo avvilupparsi tra materia e sogno trova la propria dimensione nello spazio virtuale che, paradossalmente, rende fattuale l’onirico consacrando la visione tramite il visivo. Il video è documentatore e opera stessa che ritrae i soggetti, le inedite forme, e crea la trama del sogno; non è solo un mezzo che registra, ma un protagonista di questo gioco dell’eternità: dopo il divenire della materia, c’è il movimento e, ovvia conseguenza, l’infinita riproducibilità. Ecco il segreto di vita eterna: fisico e virtuale coesistono continuamente nell’opera del Bramante.

 

 

 

Luciana Perego / Giuseppe Kastano

        Luciana Perego / Giuseppe Kastano

di Giovanni Carbone -Luciana Perego

Modica, Luglio  2023

Luciana Perego

Le cose sono il punto fermo, stabilizzante della vita.
I riti trasformano l’essere-nel-mondo in un essere-a-casa.
Essi, dunque, rendono la vita resistente.

Byung-Chul Han – la scomparsa dei riti

Mi appassiona il tema del vuoto quale dimensione in cui le cose accadono, dove il movimento è possibile. Un luogo di risonanza, capace di stimolare la percezione del sacro; un non-luogo spirituale, abissale, dal quale si tenta la fuga attraverso il consumo; uno spazio, al nostro tempo, necessario all’emersione della singola parola e il suo etimo.

I “contenitori del vuoto” attraverso la forma e l’armonia dei colori, esercitano attrazione sulle emozioni; catturano, per poi trattenere dentro il loro impalpabile contenuto. Giocarci, significa fare spazio alla parola che risuona, quella che vuole essere compresa, mentre il contatto con l’argilla infonde quiete.
La mia produzione è considerevolmente limitata: evito di usare macchine o stampi. Ogni pezzo, creato a lastra, a colombino o con un tornio manuale risponde del momento, dello stato d’animo. Ciò richiede tempo e costringe ad una continua progettazione ma concede un rapporto musicale con la materia, smuove il vissuto, invita a dargli forma e un nome.
Utilizzo l’argilla quale strumento per lavorare con le emozioni: ho messo a punto un particolare modulo di “manipolazione sensoriale”, sapendo che l’argilla, per provenienza dal regno minerale, induce alla quiete e che, per sua natura assorbe e rilascia, favorendo un processo di fioritura

Conosco il fascino dello sperimentare con il fumo e il fuoco, che sono giochi e improvvisazioni tipiche del fare ceramica Raku: essa mi affascina, sorprendente nei risultati cromatici, inattesi, a volte migliori della stessa aspettativa; indomabile nel suo essere materia assorbente esposta all’affumicatura.

Del fare ceramica, penso che non esiste limite alle possibilità. La ceramica è antropologicamente dentro di noi, da sempre accompagna la storia dell’uomo. A lei, spesso mi affido per dare consistenza al mio sentire, sapendo che, come l’acqua, può assumere qualsiasi forma e, in più, la mantiene nel tempo.

 

 

 

 

Golden SpiKe

Di Giovanni Carbone

Giuseppe Kastano è un artista e grafico di Messina, ha trascorso diverso tempo negli ambienti artistici dei Paesi Bassi, poi entra in contatto con le esperienze del teatro povero di Jerzy Grotowski. Osserva con cura le produzioni di Keith Haring, di A.R. Penk e si interessa al lavoro dell’etologo Richard Dawkins cui si ispira per la sua tesi “Prima Memetica Teatrale” con cui si diploma con lode alla Scuola di Scenografia. Trova un catalizzatore formidabile delle sue esperienze di formazione nel trogloditismo ibleo, nell’arte rupestre il cui substrato sono le cave, gli abituri rupestri, i frequenti aggrottamenti dove luci ed ombre si susseguono in un dedalo vertiginoso di immagini e suggestioni.

Le sue riproduzioni hanno l’elevato valore simbolico di un ricongiungimento necessario con la natura, evidente nell’espressione materica delle sue produzioni. Nè si pone limiti nell’utilizzo degli strumenti che veicolano la sua ricerca, fotografia, pittura, installazioni.
Nel suo tratto primordiale non c’è la banalità della riscoperta di radici, una riappropriazione identitaria, queste sono precondizioni che appaiono acquisite, diventano solo quinta scenografica per un viaggio di scoperta nell’essenza dell’intimo primigenio. È arte esplorativa d’una istintualità naturale perduta, ed in questo, dunque, si compenetra la prospettiva di ricerca. Le forme semplici sono rappresentazione organica della realtà nascosta nel gesto naturale, introducono all’archetipo generativo oltre il quale esiste ogni altrove possibile.

I lavori di Kastano recuperano quella prospettiva dimenticata, sepolta nel consueto del moderno, nella folcloristica rappresentazione d’un passato invecchiato su cui edificare un oggi asfittico ed immoto. Dentro quelli che Kastano produce, sono le tracce di ricordi perduti, di spazio senza il tempo, perfetto contraltare al “tutto e subito”, riesumati con procedimenti che paiono di maieutica socratica. Non c’è concessione alla ricerca estetica e formale, ma adesione ad una potente evocazione della realtà interiore in cui ogni dettaglio, ogni figura, diventa la parte per il tutto e che offre lo sguardo ad altri per essere ri-visto, ri-letto, ri-evocato.

Kastano non esplora spazi infiniti ma ne rappresenta l’essenza, non si concede al futuro, ma ne traccia la dimensione esatta, non descrive il passato ma ce lo racconta nelle sue sfumature esiziali. Attraversa il tempo senza muoverlo, riscopre la lentezza del gesto essenziale, non nelle forme della nostalgia di ciò che fu, quasi si volesse ritardare l’incedere inesorabile e minaccioso d’un futuro terrificante.

Ci ricorda che l’Utopia è già in noi pur se spesso non abbiamo occhi, nemmeno ogni altro senso, per coglierla. Nel segno primordiale, nella geometria in apparenza semplice, la denuncia definitiva dell’inconsistenza di quel futuro che è privo di intimo naturale, d’istinto e memoria e che altro non è, per dirla con Nabokov, “l’obsoleto al contrario”.

Antonella Giannone

Antonella Giannone

Antonella Giannone nasce a Modica nel 1990, frequenta prima il Liceo Artistico T.Campailla di Modica e successivamente l’Accademia di Belle Arti di Catania, conseguendo nel 2013 il Diploma Accademico di I livello in pittura e la Specialistica sempre in pittura nel 2016.
L’espressione pittorica dei suoi lavori è frutto di un’attenta introspezione psicologica dei sentimenti, sviluppando una tematica progettuale in divenire.
Nelle sue opere il concetto fondamentale è il contatto con le superfici che diventa generatore di memoria: una sorta di lettura tattile riprodotta attraverso una tecnica personale che le permette la creazione di rilievi e incisioni, trasfigurando e smaterializzando l’immagine, facendo apparire e scomparire immagini di oggetti e di forme note sin dalla nostra infanzia.
Altro ambito di interesse ed applicativo è la didattica dell’Arte, utilizzata per la sua valenza educativo e sociale, nella conduzione di laboratori artistici attivati sia nelle scuole che al Dipartimento di Salute Mentale.
Negli ultimi anni ha insegnato presso l’Accademia di Belle Arti “Mediterranea” di Ragusa.

Sono opere che non fermano l’istante, non lo rendono in narrazioni statiche, precise, permanenti, s’esprimono piuttosto come in una sequenza temporale dinamica. La natura corruttibile delle cose, infatti, ritiene in sé le orme del tempo che si stratificano diacronicamente: così, la traccia più recente non cancella le precedenti, talvolta le opacizza soltanto, sempre e solo per un periodo effimero, salvo poi esaltarle in qualsiasi altro momento, in una qualsiasi altra rilettura. Lo stesso tempo gioca con le cose degli uomini e, graffiando via gli strati superiori deposti al suo passaggio, ne mostra i precedenti nel gioco cromatico della sorpresa che l’opera di Antonella Giannone sa magnificamente disvelare.
La ricerca di Antonella Giannone pare prodursi dentro un percorso inesausto di esplorazione introspettiva, non smette mai di ripartire da qualcosa che, profittando di contributi esatti di memorie precise, di esperienze, si riappropria e ritiene i suoi colori. In questo è assai evidente come l’artista si sottragga agli stereotipi d’immaginari collettivi i cui sguardi distratti hanno reso la memoria in stinti grigi fastidiosi. Pure non partecipa ai formalismi consueti che in forma di presunte operazioni artistiche si fanno folklore. Al contrario crea l’effetto sublime e collaterale della messa a fuoco d’un Io che è fatto di memorie irrinunciabili, invisibili per chi è vittima inconsapevole del gioco d’inganno del tempo, per chi ha scelto la disillusione dell’accelerarsi quale pratica quotidiana, per chi si limita alla loro versione prêt-à-porter. Le atmosfere trasognate e soffuse sono richiamo a più attente esplorazioni, a ricerca mai esausta d’un cammino in cui il tempo interiore pare esprimersi in modo obliquo, non consueto, si fa cornice precisa di tutto e dell’esatto suo contrario, l’apparente nulla delle nebbie, dentro cui v’è l’esplosione d’ogni colore conosciuto.

SERGIO PODDIGHE

Sergio Poddighe

 

SERGIO PODDIGHE è nato a Palermo nel 1955. Si è diplomato al Liceo Artistico della sua città e in seguito presso l’Accademia di Belle Arti di Roma (corso di pittura). Ha insegnato Discipline Pittoriche presso il Liceo Artistico Statale, dal 1990 risiede ed opera ad Arezzo. Si è interessato agli aspetti simbolici e psicologici del segno grafico (per questo ha frequentato per un anno l’Istituto di Studi Grafologici di Urbino), come delle espressioni legate al mondo dell’illustrazione, del fumetto e della pubblicità. Ha prestato la sua opera per l’esecuzione di decorazioni, copertine di libri, manifesti legati a spettacoli ed eventi culturali. La sua ricerca pittorica si snoda attraverso percorsi espressivi diversi: dalla grafica, alla sintesi tra manipolazione digitale e pittura propriamente detta. Ha all’attivo numerose personali e partecipazioni a rassegne d’arte contemporanea in Italia e in Europa (Francia, Germania, Belgio, Svizzera, Austria, Romania, Croazia). Ha esposto in rassegne d’arte contemporanee in Usa (New York City, Houston, San Diego, Los Angeles), e al padiglione italiano di Art Basel Miami (edizione 2010); con i reduci di questa rassegna ha partecipato, in seguito, a “ Venti artisti internazionali a Palazzo Borromeo” , Milano. In Florida, inoltre, presso la contea di Walton, ha allestito due personali. Sue opere fanno parte d’innumerevoli collezioni private e pubbliche.

testo di Giovanni Carbone

I lavori di Poddighe sono la rappresentazione del contesto dei desideri umani e dell’uomo stesso come soggetti effimeri, metafora della parzialità dell’essere. L’uomo, dunque, è entità incompleta, mutilata, che rincorre l’effimero come unica vacua speranza compensativa. Riempie i propri vuoti creandone di nuovi, rincorre le proprie ansie costruendone di ulteriori, mai definitivamente consapevole del proprio progressivo allontanamento dalla concreta condizione umana. Proprio sulla condizione umana le opere suggeriscono una riflessione profonda, una riflessione ed un’analisi che possono essere affrontate da più punti di vista, poiché l’accettazione della complessità, quindi delle diverse angolazioni dell’osservazione è l’unico strumento attraverso cui è possibile costruire una prospettiva di ricomposizione dell’essere umano, a partire dalla constatazione della propria progressiva mutilazione.

 

Sergio Poddighe was born in Palermo in 1955, he graduated from the art high school of his city and from the Academy of Fine Arts in Rome (painting course). He taught many years Fine Arts at the Art High School of Arezzo (Tuscany), a city where he has lived and worked since 1990. He was intrigued the symbolic and psychological aspects of the graphic sign (for this reason he attended the Institute of Graphological Studies of Urbino for a year), and looked with interest at expressions related to the world of illustration, comics and advertising. He lent his work for the execution of art decorations, book covers illustration, posters related to shows and cultural events, theatrical sets. He has numerous solo shows and participations in contemporary art exhibitions in : Italy, United States ,France, Belgium, Switzerland, Germany, Austria, Croatia, Romania . His works are part of countless private and public collections.

UNICA

UNICA

testo di Giovanni Carbone

UNICA ( Leonie Adler ) è artista contemporanea, nata a Pune, in India, con radici irlandesi, è cresciuta e vive in Svizzera. La sua anagrafica non è, come appare dalle sue realizzazioni, un dato neutro, un timbro su un passaporto, è elemento pregnante della sua formazione artistica. Infatti, le sue forme geometriche esatte, disegni ad ago e filo, esprimono un’attrazione fatale per l’ambiente, lo interpretano quale contenitore di culture, ella stessa è consapevolmente scrigno di diversità che si uniscono ad ogni passaggio d’ordito. Il contrasto cromatico tra le sue forme ne evidenzia il desiderio di riscoperta, induce alla ricerca d’un viaggio intimo nello spazio e nel tempo attraverso traiettorie spiazzanti, un susseguirsi di cambiamenti repentini di direzione, quasi a voler significare la ricerca precisa del dettaglio, il non volersi precludere nulla che le appartiene, che appartiene al tutto d’intorno.

Ma è anche desiderio di fuga da quotidiani standardizzati e labirintici, il rifiuto di direzioni preconfezionate, della banalità prêt-à-porter. Nonostante la scelta del filo, dell’ago, dunque, Unica non rassomiglia affatto alla più celebre delle tessitrici, non è Penelope, i suoi complessi intrecci non sono trame che si sfilacciano, si scuciono, ma memoria di una direzione precisa ancorché mai scontata, flusso di informazioni che non si esaurisce ma che fa d’ogni passaggio condizione essenziale per l’esistenza del successivo. Rassomiglia ad Arianna, invece, i suoi orditi indicano percorsi salvifici di liberazione, includono la possibilità del ritorno. In quel tornare a casa, alle sue radici, come nelle articolazioni più complesse dell’intimo, non v’è mai ricerca appagante di staticità, d’un passato che invecchiato si trasforma in presente, ma la prospettiva d’un nuovo viaggio, di nuove esperienze che, a paradosso di apparenza d’accumulo, lo rendano ogni volta più leggero, più agile.

Pare che Unica si ricerchi, si ritrovi, infine, nelle sue origini, nelle sue infinite discendenze, e su quelle può contare – paesaggi della memoria d’un vissuto – come intensa scarica emozionale per una nuova ripartenza. In buona parte autodidatta, ha tuttavia assorbito perfettamente le prospettive artistiche di Louise Bourgeoise e dell’artista tessile svizzera Lissy Funk.

È anche membro dell’associazione artistica GAAL.

 

UNICA ( Leonie Adler ) is a contemporary artist, born in Pune, India, with Irish roots, grew up and lives in Switzerland. His registry is not, as appears from his creations, a neutral data, a stamp on a passport, he is a meaningful element of his artistic training. In fact, its exact geometric shapes, needle and thread designs, express a fatal attraction for the environment, interpret it as a container of cultures, she herself is consciously a casket of diversity that unites with each passage of warp. The chromatic contrast between its forms highlights its desire for rediscovery, leads to the search for an intimate journey through space and time through surprising trajectories, a succession of sudden changes of direction, as if to mean the precise search for detail, not wanting to preclude anything that belongs to it, which belongs to the whole.

But it is also a desire to escape from standardized and labyrinthine newspapers, the refusal of pre-packaged directions, of prêt-à-porter banality. Despite the choice of the thread, the needle, therefore, the only one does not resemble the most famous of the weavers at all, it is not Penelope, its complex weaves are not weaves that fray, they unstitch, but memory of a precise direction even if never taken for granted, a flow of information that does not end but that makes every passage essential condition for the existence of the next. It resembles Ariadne, however, his warps indicate salvific paths of liberation, include the possibility of returning. In that returning home, at its roots, as in the most complex articulations of the intimate, there is never a fulfilling search for static, a past that aged turns into the present, but the prospect of a new journey, new experiences that, paradoxically, make it more agile.

It seems that unique is sought, finally, in its origins, in its infinite descendants, and on those it can count – landscapes of the memory of a lived experience – as an intense emotional discharge for a new restart. In large part self-taught, however, he perfectly absorbed the artistic prospects of Louise Bourgeoise and the Swiss textile artist Lissy Funk. She is also a member of the Gaal Artistic Association.

 

Stefano Meli / Le vibrazioni del viaggio

Le vibrazioni del viaggio

(Allonsanfàn parte ventiduesima: “Live from the Globe” di Stefano Meli)

Gettato sull’erba vergine, in faccia alle strane costellazioni io mi andavo abbandonando tutto ai misteriosi giochi dei loro arabeschi, cullato deliziosamente dai rumori attutiti del bivacco. I miei pensieri fluttuavano: si susseguivano i miei ricordi: che deliziosamente sembravano sommergersi per riapparire a tratti trasumanati in lontananza, come per un’eco profonda e misteriosa, dentro l’infinità maestà della natura…” (Canti Orfici, Dino Campana)

Stefano Meli non pare mai tipo da prove lunghe ed estenuanti, è sempre da buona la prima, che quella è la sola giusta. Le corde della sua chitarra vibrano sempre di viaggio e scoperta, e se i suoni sono quelli che hanno capacità di sollevare la polvere di deserti lontani, a me, pure, mi danno sensazioni di percorrenze di trazzere sperdute a margine d’un altrove che è casa nostra condivisa, come condiviso si fece un fiasco di vino dal sapor di terra e di sale. Vibrano quelle corde, ancora, per un disco nuovo che si fece vivo – ma quando mai non lo fu? – dal vivo, in una serata al Globe di Ragusa. Qualcosa spizzicata qua e là tra le cose sue, roba di Viceversa Records, tutte con quella propensione a lasciare aperta la storia d’un altro viaggio.

 

Viaggio notturno, tra la fioca luce dei lampioni d’una qualche Suburbia, pure attraversamento d’altro, comunque giammai a itinerario fermo, prestabilito, solo corso per vite libere, come altro non può essere. Quest’ultimo lavoro di Stefano questo mi ricorda, scorrimento lento in terra iblea, quando si fa terra d’altrove, concorre con Patagonie e deserti. E quello m’evoca forse solo per nostalgia di luoghi e affratellamenti di cui mai facemmo a meno. Qualche volta bisogna fare rotta altrove, oltre la cittadella presa d’assalto. L’altopiano sulle guide non c’è, lo consente. Ci puoi fare decine di chilometri e non incontrarci nessuno, che presenza umana invece è dappertutto, in dedalo infinito di muri a secco, pietre su pietre strappate alla terra. C’è ancora un altro blues che vibra lì.

Quadrati, rombi, trapezi, cerchi ed ovali, raccontano storie antiche. Antichi abituri che non smisero mai d’essere abitati, che di destinazione d’uso fecero gioco bislacco, financo sepoltura di vassallo d’Eblon divenne chiesa di Bisanzio, tombe si fecero magazzini, ovili, abitazioni di chissà quante genti da mille mila anni per bagaglio d’ampia fantasia a necessità impellente. L’intarsio è roba di ordito intricatissimo, d’eleganza somma, sguardo di vertigine si spinge sinché ce n’è. E poi, d’improvviso dicchi e pieghe della crosta, per irrequietezza di mantelli incandescenti, di sommovimenti terribili, pure strapiombi infiniti, dove le acque gelide di fiumi si fecero e si fanno strada a scavare tane per trote, volpi, ghiandaie e biacchi iridescenti. C’è comanda di suoni giusti tra quei cento anfratti che nascosero velli d’oro e trovature in fondo ad arcobaleni. Tutto si fa ingresso a terra di Lotofagi e smarrisci ogni tema di ritorno. Terra di fiabe, terra d’apparenza sola, che di colori si fece tavolozza densa, e non si curò che di chi ne seppe cogliere l’indispensabilità d’ogni cromatismo. È terra che puoi attraversare come ti pare, ma se c’è una corda giusta che t’accompagna, come filo d’Arianna, è quella che vibra ancora nelle cose di Stefano. E a proposito, il 21 presenta il suo Apache è qui.

 

Stefano Meli presenta il suo CD-Apache presso l’A/telier, giorno 21.05.23 alle ore 18.30 .

Modica Alta,Via Pizzo 42

ANGELO MODICA. LA PIETRA VIVE

  
ANGELO MODICA-LA PIETRA VIVE

di Giovanni Carbone

Modica, Maggio 2023

NdR. La segnalazione ci è giunta da Alberto Sipione, che ha organizzato nel suo spazio espositivo a Modica, ‘L’ATELIER. Non luogo di situazioni e contemporaneità’ (via Pizzo, 42), la prima mostra dell’artista, inaugurata il 24 febbraio 2023. Una vocazione e un esordio tardivo.
Scrive Alberto Sipione: «Nell’estate del 2022 già nelle prime ore del giorno la Via Pizzo a Modica Alta si risvegliava quasi giornalmente con uno scadere
regolare di un ticchettio leggermente metallico. Non era il rumore dei motorini assordanti con le marmitte truccate, ma un lieve suono. Sporgendomi
dal balcone mi accorgevo della presenza di Don Angelo sotto una nuova veste, quella di artista scultore. Con i mezzi a sua disposizione iniziava a scolpire la pietra modicana su un lato della stradina. Questa presenza attirava pure l’interesse di turisti che sorridevano attenzionando il loro sguardo su
questa presenza dai non normali tratti folcloristici. Angelo Modica è un ultra ottantenne, proletario di nascita, che all’età di 80 anni scopre un mezzo
di espressione, la pietra, lo scalpello per produrre opere che si possono definire “prodotto artistico”. Nonostante gli anni e la sua malattia che lo limita nei movimenti ha iniziato una piccola guerra contro le insidie, gli acciacchi ed i limiti della vita che anno dopo anno ci rendono differentemente abili».

 

Segue il testo di Giovanni Carbone.

Angelo Modica la sua città se la porta dentro già nel nome, «un paese a forma di melograna spaccata», diceva Mastro Don Gesualdo Bufalino. Una montagna scavata dai fiumi, e sulle pareti a strapiombo sul fondo valle l’alveare d’antiche sepolture, abituri che, con la pietra di risulta d’ulteriori estrazioni, s’aggettano a diventare case e palazzi, il disegno d’un presepe perfetto. Pure collassano, quelle pietre, sotto i colpi furibondi d’un terremoto, ma rivivono ancora, diventano le fondamenta per il colpo d’occhio che si respira dal Belvedere del Pizzo, quello che domina il paese dalla sua parte alta, dove Angelo è nato 83 anni fa, dov’è sempre vissuto, se si esclude quel certo periodo di tempo trascorso all’estero ad inseguire la promessa per una vita migliore. Quelle pietre Angelo le conosce bene, sono le stesse che affollano i campi, le fertili campagne d’intorno, che assumono forme e dimensioni esatte sotto i colpi di perizia raffinatissima del martello in testa dei “mastri de mura”, si fanno tessere del fitto e vertiginoso mosaico dei muretti a secco. Suo padre questo faceva,“u mastro de’ mura”, e Angelo, nella sua vita in campagna, ne ebbe eredità d’insegnamenti preziosi per costruire quell’arabesco infinito che racconta la storia dell’arte di rendere fertile la terra, della necessità di far ruotare le colture, del maggese, dei recinti per le bestie, protezioni dal vento di Scirocco che spazza l’altopiano nelle giornate più calde, ci ricorda d’un padre che lasciò il suo podere ai figli in parti eguali. Sono le pietre che emersero da fonda-
li marini antichi, che recano con sé la storia che precedette gli uomini, fini
sedimenti carbonatici, gusci invisibili di piccole creature sedimentate a fine
vita, che creano sostrato di destino per gli uomini che sarebbero arrivati.
Le conosce bene Angelo quelle pietre duttili, proprio come le conoscevano
abili scalpellini che ricavarono figure grottesche dalle loro forme imperfette,
quasi a voler sconfiggere la maledizione della terra che trema, esorcizzare con quelle immagini la paura e lo sconforto del perdere tutto, tutto fuorché la pietra. Angelo non le ha mai abbandonate quelle pietre, per
una vita le ha accatastate, a proteggere le radici d’un ulivo, a far spazio a quelle di viti per un vino dal sapore aspro che sa di terra e di sale. Le conosce bene per averle viste prolungarsi e rivivere in forme nuove nei mannaruni, nel dedalo dei muretti, all’ombra d’un carrubo o d’un gelso, per riposarvisi sopra dalla fatica dei campi, con caci giusti, olive, pane di casa ed un grappolo di “racina”. Quando la sua Pinuccia, la compagna d’una vita, se n’è andata e le sue figlie hanno preso strade altre , come si compete ai ragazzi che crescono, Angelo se n’è riappropriato, vi ha inciso sopra la storia delle sue memorie con strumenti semplici, un martello, la punta d’un cacciavite. O forse semplicemente quella storia l’ha tirata fuori da dove era sempre stata, dove era consapevole vi fosse la narrazione d’una vita. Proprio nel solco di quella che un tempo si definiva Art Brut ha raccontato se stesso, la sua vicenda personale, i suoi luoghi, il proprio immaginario nelle forme sorprendenti di essenze, d’alberi, delle cose che ha avuto a fianco in ogni istante del suo quotidiano. Don Angelo Modica supera, nell’essenziale della sua produzione, il paradigma dell’arte contemporanea quale merce, non cerca sfoghi narcististici, approvazione e pubblico, si esprime e basta. Documenta la sua simbiosi con la pietra, con i luoghi dov’è vissuto e vive, la racconta per quello che è, qualcosa che gli appartiene nell’intimo. Non fa gruppo o genere, è solo lui, le sue pietre, le sue memorie, la sensibilità di un uomo che non cerca facili accondiscendenze. Non si concede fronzoli, ha financo quasi un pudore intimo nel parlare delle sue cose, della sua arte, si limita a mostrarle con un sorriso che sa di gratitudine a chi glielo chiede.


L’idea di esporre le sue opere all’A/telier pare sia fatto connaturato alla ricerca di una dimensione dell’arte che non s’adegua ai luoghi canonici che l’immaginario collettivo mercificato ha predisposto. L’Altelier di Modica Alta, del resto, è uno spazio espositivo dove non dovrebbe esserci, semplicemente l’anticamera d’una abitazione trasformata ad un uso condiviso, per ospitare arte, al centro d’un quartiere che non v’è preposto, popolare e vecchio, intriso di tradizione ma non abbastanza vicino a fasti da cartolina come quello più in basso. Vi si fermano rari turisti, quelli che sono adusi a esplorazioni faticose a percorrenza di vicoli stretti, dedali di stradine e scalinate erte ancora scavate nella pietra, silenzi profondi, scarpinanti che s’attrezzano allo stupore dell’improvvisa apertura sul presepe di case. È quartiere dove la domenica presto puoi fare ancora colazione con vino e bollito, come facevano i contadini d’un tempo, dove puoi trascorrere serate sotto le scale d’una chiesa sempre con qualcosa da bere che non necessita di mutui a tasso d’usura a conto fatto. Basta mettere tre sedie fuori da quel posto e può fermarsi qualcuno ad occasionale passaggio, che s’appassiona ad una esposizione di cui non sapeva nulla, e di quella si mette a discutere come si ritrovasse in un luogo già noto, con lo sfondo del jazz di Miles o The Goldberg Variations di Bach suonata da Glenn Gould.
Pure si ferma Peppe, custode dell’imponente chiesa prossima, birra e sigaretta in mano, e sempre il vecchio Don Angelo, l’abilissimo “mastro” di muri a secco, che s’accomoda con libro in mano o grappolo d’uva della sua vigna, perché d’istinto, come tira fuori ghirigori di racconti dalla pietra, Don Angelo sa bene cosa vuol dire Outsider Art, nemmeno intende rinunciare a farne parte.

Articolo pubblicato nel numero 25 dell’ “OSSERVATORIO OUTSIDER ART” numero primavera maggio 2023. ( Qui in formato PDF www.outsiderartsicilia.it/public/download/11781/primavera 2023 n.25_compressed.pdf )

Ringraziamo il presidente Eva Di Stefano per la pubblicazione di questo contributo e consigliamo di seguire la pagina e le attività su questa pagina : www.outsiderartsicilia.it/

L’Osservatorio Outsider Art è dedicato alle forme di arte spontanea, clandestina, irregolare, eccentrica, creata da autori culturalmente, mentalmente o socialmente emarginati, e a tutte quelle espressioni artistiche che si manifestano fuori dai percorsi convenzionali e dai circuiti culturali istituzionalizzati, e che, a livello internazionale, sono state già identificate nel loro aspetto più storicizzato con la nozione di Art Brut e oggi rientrano nella categoria più ampia e dinamica dell’Outsider Art.

 

Raffaello De Vito

Raffaello De Vito

Raffaello De Vito vive e lavora in Italia tra Reggio Emilia e Modena.

Si avvicina alla fotografia all’età di 12 anni e a 14 inizia il suo percorso formativo in uno studio di fotografia pubblicitaria, esperienza che lo porterà a confrontarsi con diversi professionisti del settore e con importanti aziende presenti sul mercato internazionale.

Alla fine degli anni Ottanta inizia una collaborazione come assistente alla produzione con Luigi Ghirri, collaborazione che si interrompe nel 1991 con la prematura scomparsa del grande fotografo e che ha dato inizio a una ricerca visiva che esplora ancora oggi.
Un costante lavoro di semplificazione, di sottrazione e di sintesi verso un linguaggio universale immediatamente comprensibile.

Ha al suo attivo diverse esposizioni in Svizzera, Francia, Spagna, Inghilterra e Italia oltre a numerose pubblicazioni nei siti web di tutto il mondo.

Nuove famiglie

NUOVE FAMIGLIE

 

Raffaello De Vito è fotografo raffinato, dotato di grande tecnica, padronanza degli strumenti. Ma non ne fa uso consueto, non ricerca perfezione d’immagini e basta, studia, concepisce, elabora narrazioni complesse….

De Vito centra la quinta scenografica della vicenda nell’estremo miserabile del mondo degli ultimi, ma non ne fa riproposizione compassionevole, pietistica. Ne disvela piuttosto l’essenza materiale, non indugia in infingimenti, nemmeno produce moralismi…… ( Giovanni Carbone )

Le atrocità sollevano unindignazione minore, quanto più le vittime sono dissimili dai normali lettori, quanto più sono more”, sudice”, dago. Questo fatto illumina le atrocità non meno che le reazioni degli spettatori. (…) Laffermazione ricorrente che i selvaggi, i negri, i giapponesi, somigliano ad animali, o a scimmie, contiene già la chiave del pogrom. Della cui possibilità si decide nellistante in cui locchio di un animale ferito a morte colpisce luomo. Lostinazione con cui egli devia da sé quello sguardo – “non è che un animale” – si ripete incessantemente nelle crudeltà commesse sugli uomini, in cui gli esecutori devono sempre di nuovo confermare a se stessi il non è che un animale”, a cui non riuscivano a credere neppure nel caso dellanimale. Nella società repressiva il concetto stesso delluomo è la parodia delluguaglianza di tutto ciò che è fatto ad immagine di Dio. Fa parte del meccanismo della proiezione morbosa” che i detentori del potere avvertano come uomo solo la propria immagine, anziché riflettere lumano proprio come il diverso”. (Theodor Adorno)

Konrad Hofer / Aldo Giovannini

            Konrad Hofer / Aldo Giovannini

di Giovanni Carbone -Lukas Lavater & Annemarie Monteil

Modica, Aprile 2023

I Colori dello Spirito

Il colore suggerisce la percezione della vita. (O il contrario?)

Konrad Hofer, era nato nel 1928 e cresciuto nella zona rurale di Langenau, nell’Emmental, dove l’ambizione più grande era diventare macchinisti, direttori di banca o piloti. Non per Konrad Hofer. Lui sognava fin da piccolo l’utilizzo del pennello, seguire la linea del disegno per cui intraprese la via dell’arte.
Nel 1949 si trasferì a Basilea, dove trovò il terreno fertile nella cultura degli anni ’60 e ’70 per sviluppare il suo talento. Le tante esposizioni nelle diverse gallerie vissero attraverso le impressioni della sua vita, espresse dai suoi dipinti dai colori terrosi. Possiamo ancora ammirare i suoi dipinti e rilievi in varie università, edifici bancari e spazi pubblici.
Konrad Hofer apparteneva alla classe popolare, un artigiano, un artista della vita, un uomo libero. Non si è mai asservito al sistema, con un impiego da insegnante come altri suoi colleghi, anche se questo gli avrebbe reso la vita più semplice.Era un uomo socievole che si sentiva a suo agio nella cerchia degli amici e familiari. Per dipingere però aveva bisogno di calma e solitudine: si sedeva lasciando che il mondo gli scorresse accanto per assorbirne le impressioni con tutti i sensi attivi e trasmettere nella tela le sue visioni.

La Provenza fu fonte inesauribile di ispirazione: paesaggi, dolci colline, mandrie di bovini, formazioni rocciose. I vigneti come personale elisir di lunga vita, argomento di incontri, guida attraverso le stagioni, si manifestavano sulla tela.

Dalle cave portava a casa non solo le immagini figurative, ma anche la sabbia che utilizzava per conferire una sorta di autenticità ai suoi dipinti. Ha collegato terra e cielo con lunghe pennellate orizzontali, con l’uso di matite, mentre per le rocce ha scelto toni acrilici, aspri. Realtà del quotidiano? Certo, ma da buon bernese riflessivo, trascurava il casuale, l’oscuro. Però andava fino in fondo ai fenomeni, dove questi rivelano l’essenziale, l’unico.
In lunghe riflessioni in studio, su più temi, elaborò la capacità significante di un paesaggio, di una cava, di una formazione montuosa.

Il suo quotidiano era piacevolmente rituale, la porta del suo studio sempre aperta, familiare. All’interno il fascino del professionista libero, le prove pittoriche di un lavoro costante e la calda aura di Konrad Hofer persona. È difficile sfuggire a questa formula unica. Riceveva con la stessa cordialità i direttori di banca e gli umili: si trattava di ghiotte occasioni per scegliere una bottiglia di rosso durante le gradite visite in studio e permettere ai visitatori di gettare uno sguardo sulla sua vita dipinta nell’anima.
Il suo miglior marketing era la sua essenza (anche se la parola marketing gli era del tutto estranea!).
I suoi quadri: pieni di densità d’impressioni, un’intera tavolozza di percezioni sensoriali, colori del silenzio che hanno tanto da raccontare, ubriachi di vita. Senza tempo.

Lukas Lavater & Annemarie Montiel

 

Aldo Giovannini, artista bolognese, classe 1967, fa della sua opera il rifiuto organico del paradigma dell’uomo contemporaneo, rifugge il vissuto di linee ritte, senza gomiti e tornanti, percorse in un tempo inutilmente accelerato. Pare concepire l’idea del quanto meglio s’avverrebbe ad esser tutti lenti, a procedere per partecipato affratellamento con le cose del mondo, fare che si disvelino le prospettive altre di armonie e bellezze, pure quelle interiori che disaffezione all’attenzione autentica seppelliscono nella coltre oscura e densa di immaginari collettivi. La linea ritta è si assai più rapida, ma uguale a se stessa, è itinerario cash & carry, percorso mordi & fuggi. L’itinerario più breve per un altro percorso prestabilito, eterodefinito e rettilineo, dove non v’è gusto d’incontro. I suoi itinerari, invece, sono tracciati come sorpresa d’infinito, fili di ferro che si dispiegano in traiettorie che non appartengono a chi di fretta fece virtù superiore. Preferisce l’indugio della narrazione, la memoria e lo sguardo di chi sa fermarsi e lancia occhio e cuore alla deriva inattesa, senza vincoli al bivio per scelte mai scontate. Il tempo, nell’opera di Aldo Giovannini, non è variabile imprescindibile.

Non s’arrende a che il presente sia l’unica prospettiva temporale concessa, esplora il passato mentre guarda il futuro, elude l’idea d’una libertà negata per prigionia autoinflitta e inconsapevole, per la fila alla cassa, per la direzione mai a linea sghemba. Lascia ad altro la monotonia di strade esatte, ad altro che solo quelle conosce giacché non ambisce a percorsi panoramici, alla lentezza che vede tutto. Ad altro cede volentieri i tempi stretti della velocità di logaritmo, ché non v’è possibilità di scorgere un nuovo dettaglio che si fa racconto nell’accelerazione a parossismo. Lui non spera nella stazione celata dal muro, in benedizione d’assoluzione, nel conforto delle sacre stanze di corruzione. Si dissocia dal mondo che non concepisce resa, non la prevede, si fa, invece e per diserzione, isola ch’è sorta dal mare e nessuno vede, di cui l’uno qualunque non conosce esistenza nemmanco a binocolo o telescopio portentoso, poiché occhi non ha, neanche prospettiva di deriva e approdo.

Conforta nella sua visione d’artista l’addivenire a conclusione che «il mondo abitato dall’uomo moderno è ormai denso, saturo, di immagini e suoni… si accavallano tra loro, entrano dentro di noi e non ci danno il tempo di metabolizzare ciò che si portano con sé. La dimensione temporale si è compressa impedendoci di trovare una “risposta”. Siamo portati a divenire soggetti passivi, spettatori di una quantità impressionante di sollecitazioni. Fermare il tempo o almeno rallentarlo … porci davanti alla nostra interiorità al suo rapporto con il passato, anche remoto … si può fare, è necessario, per me almeno. Attraverso le mie mani, che si fanno strada tra i meandri dell’esistente, nell’alterità, nelle visioni della psiche, nella sua memoria, nei desideri, nei suoi sogni, io finalmente compio il mio atto taumaturgico. Divento parte del tutto, mi riconnetto con la parte più viva di me, con la parte più autentica e traccio un ponte verso il sentiero dell’irrazionale, del simbolico, archetipico, che mi appartiene, che ci appartiene e possiamo riconoscerlo. Basta avere il tempo di guardarla in fondo agli occhi. Un filo di ferro è medium perfetto che abbraccia il vuoto, traccia percorsi nella mutevolezza del divenire crea un approdo che accolga ciò che è nascosto dentro di noi.»

Giovanni Carbone

Aldo Giovannini / alkreado

Aldo Giovannini / alkreado

Aldo Giovannini nasce a Bologna nel ’67.
Artista polivalente forma un proprio percorso improntato sulla sperimentazione di diversi ambiti espressivi nella ricerca scultorea svincolata dai canoni accademici, nella messa in opera di installazioni interattive, nella progettazione e realizzazione di scenografie e arredi urbani e nella produzione di oggetti di design. Ha operato soprattutto a Bologna, ma anche Firenze e Milano. Trasferitosi da alcuni anni in Sicilia il suo lavoro si è sviluppato tra Catania, Noto, Modica e Siracusa, dove si è stabilito in modo permanente aprendo un suo atelier di scultura .

 

Tempo e Psiche

Il mondo abitato dall’uomo moderno è ormai denso, saturo, di immagini e suoni,… si accavallano tra loro , entrano dentro di noi e non ci danno il tempo di metabolizzare ciò che si portano con sé . La dimensione temporale si è compressa, impedendoci di trovare una “risposta”, siamo perciò portati a divenire soggetti passivi, spettatori di una quantità impressionante di sollecitazioni .

Fermare il tempo o almeno rallentarlo … porci davanti alla nostra interiorità al suo rapporto con il passato, anche remoto … lo si può fare, è necessario farlo per me almeno,….attraverso le mie mani, che si fanno strada tra i meandri dell’esistente, nell’alterità, nelle visioni della psiche nella sua memoria, nei desideri, nei suoi sogni io finalmente compio il mio atto taumaturgico, divento parte del tutto, mi riconnetto con la parte più viva di me con la parte più autentica, traccio un ponte verso il sentiero dell’irrazionale, del simbolico, archetipico  che mi appartiene, che ci appartiene, la possiamo riconoscere basta avere il tempo di guardarla in fondo agli occhi.

( Aldo Giovannini )

 

Antonella Giannone / Il Bramante

                ANTONELLA GIANNONE / IL BRAMANTE

di Giovanni Carbone e Silvia Nonaizzi
Modica, Febbraio 2022

Antonella Giannone è artista che a dispetto della sua giovane età pare assai consapevole della sua ricerca espressiva. Le sue opere regalano la piacevolissima sensazione che i colori non siano stati semplicemente “depositati” – ancorché con tecnica raffinata – su un supporto, ma che invece si siano fatti spazio attraverso antiche sovrapposizioni, immagini d’infanzia, memorie vissute, tal altre raccontate. La bidimensionalità del piano svanisce in rilievi tattili, profondità materiche, presenti; immagini spariscono, riappaiono come un fiume carsico in forme e determinazioni nuove, quali concrezioni identitarie. Memoria e prospettiva convivono in un unicum narrativo fatto di dettagli sfumati, non semplici richiami nostalgici o cristallizzazioni del presente, nemmeno si accomodano in visioni taumatugiche o – com’è assai più consueto – spaventate del futuro, rappresentano nella loro complessità/unitarietà una precisa consapevolezza interiore.

Sono opere che non fermano l’istante, non lo rendono in narrazioni statiche, precise, permanenti, s’esprimono piuttosto come in una sequenza temporale dinamica. La natura corruttibile delle cose, infatti, ritiene in sé le orme del tempo che si stratificano diacronicamente: così, la traccia più recente non cancella le precedenti, talvolta le opacizza soltanto, sempre e solo per un periodo effimero, salvo poi esaltarle in qualsiasi altro momento, in una qualsiasi altra rilettura. Lo stesso tempo gioca con le cose degli uomini e, graffiando via gli strati superiori deposti al suo passaggio, ne mostra i precedenti nel gioco cromatico della sorpresa che l’opera di Antonella Giannone sa magnificamente disvelare.

Antonella Giannone vive e lavora a Modica dove ha iniziato i suoi studi artistici al Liceo Artistico Tommaso Campailla. Consegue il diploma accademico di II livello in pittura nel 2016, presso l’Accademia di Belle Arti di Catania. Mantiene costanti, la ricerca, lo studio e l’attività pittorica, partecipando a mostre collettive e personali. Si occupa di didattica dell’Arte, utilizzata per la sua valenza educativa e sociale, nella conduzione di laboratori artistici attivati sia nelle scuole che al Dipartimento di Salute Mentale. Negli ultimi anni ha insegnato presso l’Accademia di Belle Arti “Mediterranea” di Ragusa.

Giovanni Carbone

Il Bramante – Dalla scultura al video: la connessione che si presenta come sogno.
L’atto del plasmare condensa in sé tutto il lavoro dell’artista in un’opera in cui ancora contano il materico e la materialità, in cui ogni sostanza è impastata fino all’imbroglio della trasformazione di un sogno che assume fattezze tangibili. Partendo dalla materia prima e da forme essenziali, Il Bramante ferma il flusso onirico, ne congela una visione o ne condensa molte trasformando l’astratto inafferrabile in qualcosa di palpabile: è una manipolazione di idee in cui il fare garantisce l’esistenza corporea di un miraggio. La sostanza prende forma e si concretizza tramite la mano dell’artista illusionista che ne altera l’essenza conferendo un nuovo aspetto, inedite e destabilizzanti sembianze.
Il concetto di materia e l’utilizzo che l’artista ne fa sono tutt’altro che irrilevanti: i materiali poveri, scarti destinati al macero, sono la base di partenza a cui le mani daranno nuova forma, colore e peso creando narrazioni. Le superfici ruvide si alternano a morbide curve, dettagli sferzanti creano ombre fendendo la luce.
[ materia:
/ma·tè·ria/
sostantivo femminile
Entità provvista di una propria consistenza fisica, dotata di peso e di inerzia, capace di adeguarsi a una forma; concepita di volta in volta come sostrato concreto e differenziato degli oggetti o delle sostanze o come principio considerato passivo nei confronti della “forma” o antagonisticamente contrapposto allo “spirito”.

Ed è quindi da questa bramosia di ingannare stratificando materia e visione che l’artista mistifica le forme e crea illusioni, concedendo all’opera un mutamento perpetuo che la mantiene in una condizione perennemente vitale. La creazione non è mai definitiva: è completa ma non finita poiché le è ancora concesso di cambiare. Gli effetti del tempo su elementi suscettibili al suo trascorrere operano una rivoluzione incessante e donano vita eterna.
[visione:
/vi·ṣió·ne/
sostantivo femminile
1. Percezione degli stimoli luminosi
2. Idea, concetto, quadro.]

Questo avvilupparsi tra materia e sogno trova la propria dimensione nello spazio virtuale che, paradossalmente, rende fattuale l’onirico consacrando la visione tramite il visivo. Il video è documentatore e opera stessa che ritrae i soggetti, le inedite forme, e crea la trama del sogno; non è solo un mezzo che registra, ma un protagonista di questo gioco dell’eternità: dopo il divenire della materia, c’è il movimento e, ovvia conseguenza, l’infinita riproducibilità. Ecco il segreto di vita eterna: fisico e virtuale coesistono continuamente nell’opera del Bramante.

Silvia Nonaizzi

Angelo Modica, in estemporanea

Angelo Modica, in estemporanea

di Alberto Sipione
Febbraio 2023

Quel ticchettio al mattino.
Nell’estate del 2022 già nelle prime ore del giorno la Via Pizzo a Modica Alta si risvegliava quasi giornalmente con uno scadere regolare di un ticchettio leggermente metallico. Non era il rumore dei motorini assordanti con le marmitte truccate, ma un lieve suono. Sporgendomi dal balcone mi accorgevo della presenza di Don Angelo sotto una nuova veste, quella di artista scultore. Con i mezzi a sua disposizione iniziava a scolpire la pietra modicana su un lato della stradina. Questa presenza attirava pure l’interesse di turisti che sorridevano attenzionando il loro sguardo su questa presenza dai non normali tratti folcloristici.
La sua arte é semplice, povera e brutale. Il segno primitivo e nello stesso tempo cosi’ sacro e profano. E’ l’arte dell’impulso in cui la purezza del gesto non viene intaccato da fini ultimi che la società consumistica impone. La forma espressiva è libera dagli schemi istituzionalizzati e l’artista emerge nella sua spontaneità psichica. Si tratta di una produzione indipendente. Spontanea. Non esiste tecnica nè modello estetico.
Visionari e irregolari persone come Angelo promuovono l’arte necessaria, quell’arte, “fuori sistema”, in passato nota come Art Brut e oggi, in senso più lato, conosciuta come Outsider Art.
Gli outsider non hanno pubblico. Sfidano il sistema dell’arte ponendo l’istinto al comando delle loro opere.
Angelo Modica è un ultra ottantenne, proletario di nascita, che all’età di 80 anni scopre un mezzo di espressione, la pietra, lo scalpello per produrre opere che si possono definire “prodotto artistico”. Nonostante gli anni e la sua malattia che lo limita nei movimenti ha iniziato una piccola guerra contro le insidie , gli acciacchi ed i limiti della vita che anno dopo anno ci rendono differentemente abili.
That ticking in the morning.
In the summer of 2022, already in the early hours of the day, Via Pizzo in Modica Alta awoke almost daily to the regular expiration of a slightly metallic ticking sound. It was not the noise of deafening mopeds with tricked-out mufflers, but a faint sound. Leaning out from the balcony, I became aware of the presence of Don Angelo in a new guise, that of a sculptor artist. With the means at his disposal, he began sculpting Modican stone on one side of the little street. This presence also attracted the interest of tourists who smiled as they caught their eyes on this presence with its unusual folkloric traits.
Angelo Modica is over 80 years old, a proletarian by birth, who at the age of 80 discovered a means of expression, stone, the chisel to produce works that could be defined as ‘artistic products’. Despite his years and his illness that restricts his movements, he has started a small war against the pitfalls, ailments and limitations of life that year after year make us differently abled.
His art is simple, poor and brutal. The sign is primitive and at the same time so sacred and profane. It is the art of impulse in which the purity of the gesture is not affected by the ultimate goals that consumer society imposes. The expressive form is free from institutionalised schemes and the artist emerges in his psychic spontaneity. It is an independent production. Spontaneous.
There is no technique or aesthetic model. Visionary and irregular people like Angelo promote necessary art, that art, ‘outside the system’, formerly known as Art Brut and today, in a broader sense, known as Outsider Art. Outsiders have no audience. They challenge the art system by putting instinct at the helm of their works.

Visioni Loco(emotive)-Poddighe/Monteleone

Visioni Loco(e)motive

Poddighe/Monteleone

di Giovanni Carbone
Modica, Febbraio 2022

La sua opera è preziosa poiché non si limita ad esporsi, invita al convivio, come le sue mostre, dove è quinta condivisa di pomodori e caci, olive, uova sode e pani caldi, manco a dirlo, vini pista e ammutta che incendiano le budella col gusto della terra bruciata dal sole. Le note di Schifano ci sono tutte, inseguite dai suoi studi fiorentini, messaggi di avanguardie isolane ed approdi per ogni continente. Colori precisi e tratti sfumati, contorni nitidi e ombre fuggenti, nel tutto che si disincrosta dell’eccesso sino a renderci l’essenza del pensiero più autentico, sono la sintesi dell’oggetto che amplifica la nostalgia per le forme esatte. Quadri che fanno suoni, melodie di motori sbuffanti, scalpiccio di zoccoli e fruscii di piume, ma pure odori forti, commenti soffusi. risa giuste. Il suo lavoro di anni, le sue opere, sono barricate altissime che provano a reggere a difesa degli ultimi presidi d’umanità.
I lavori di Poddighe, invece, hanno più l’apparenza di desolata contemplazione del tramonto dell’uomo, sono la rappresentazione esatta della disumanizzante mercificazione dei suoi sogni.

Non è cosa semplice, mai, far dialogare artisti diversi, ma capita che, al di là di manifeste distanze stilistiche, essi possano esprimere insospettabili convergenze. Ignazio Monteleone e Sergio Poddighe sono, a primo acchito, talmente lontani da non immaginare come le loro opere possano prodursi in un comune percorso narrativo.

Pare abbiano in comune al massimo taluni cenni biografici: sono entrambi siciliani, intanto, e questo non è dato che si possa trascurare, pure se l’uno, Monteleone, nella classicissima categorizzazione degli isolani dello storico direttore dell’Ora Nisticò, è siciliano di scoglio, tenacemente abbarbicato alla sua terra, in un bilico costante che oscilla tra Modica e Palazzo Adriano. L’altro, Poddighe, palermitano di nascita, è più siciliano di mare, ché non si fece scrupolo a lasciare che fossero soltanto furibonde nostalgie e brevissime incursioni a garantirgli il legame con l’isola. Entrambi si sono formati nel mondo delle accademie, quella di Firenze per Monteleone, Poddighe ha invece frequentato Roma. I trascorsi di studio attento sono evidentissimi in perizie tecniche raffinate, evolute in decenni di pratica. Hanno insegnato discipline pittoriche nei licei artistici prima di farsi pensionati praticamente in simultanea.
Dal punto di vista stilistico sono praticamente antipodici. Monteleone appare scanzonato, i suoi soggetti sono ombre che si muovono su tappeti di colore, non è tipo che s’arrende alle cupezza del tutto d’intorno. È, dunque, pittore resistente, già dai tempi in cui non ci s’avvedeva che c’era di che farsi partigiano, piuttosto s’anelava assuefazione. Nel suo atelier-abitazione, un vecchio magazzino riattato all’uopo, si respira storia, si legge sulle pareti un lunghissimo percorso artistico. Si sente il vociare felicemente scomposto dei suoi allievi, cui cerca ancora di tirar fuori estri creativi oltre il tempo scuola. Perché la sua non era la scuola d’un paradigma aristotelico, piuttosto Stoa, caparbia voglia di scoprire i talenti nelle dita e negli occhi dei suoi ragazzi.
Come faceva il Maestro Manzi quando insegnava a leggere e scrivere a milioni di italiani, lui smantella sovrastrutture per liberare la creazione d’un linguaggio nuovo, non soggetto ai valutatoi prescrittivi del contemporaneo. I suoi lavori aderiscono alla ricerca incessante della bellezza attraverso un tratto apparentemente ingenuo, mossa efficace e spiazzante contro la sproporzione delle forze in campo. Corvi e Vele e il giallo (“ch’è colore bastardo”), il suo Don Chisciotte, le sette palme che danzano, i treni a vapore oscillano tra nostalgie e gioco autentico. Ignazio, che è figlio di ferroviere, come lo furono Quasimodo e Vittorini dalle stesse parti, sa cosa c’è da aspettarsi ad ogni stazione, ad ogni fermata, i fazzoletti levati al cielo, umidi di lacrime e colorati di rossetti, fasci di palme stesi ad asciugare per una domenica di festa.

I desideri umani perdono completamente il carattere di processo decisionale autonomo, sono eterodiretti, rappresentano adesione incondizionata ed acritica ad un unico modello prescrittivo. L’uomo stesso appare come entità devitalizzata, relegata alla parzialità dell’essere, dunque, incompleta, mutilata, che rincorre l’effimero come unica vacua speranza compensativa. Riempie i propri vuoti creandone di nuovi, rincorre le proprie ansie costruendone di ulteriori, mai definitivamente consapevole del proprio progressivo svuotamento. Con l’avvento del capitalismo, l’uomo cede dapprima una quota parte del suo tempo al lavoro alienato, allo sfruttamento, al giogo produttivo, poi rinuncia a ciò che resta del suo vissuto per destinarlo al consumo, quindi, esaurito pure quel tempo, diviene esso stesso merce. E l’uomo-merce è ridotto a mera immagine, si autoriproduce in forme standardizzate e seriali, non ritiene alcuna identità, è solo un piccolo ingranaggio della gigantesca macchina della massificazione produttiva. Il suo è un richiamo alla società dello spettacolo che annichilisce i singoli, li relega a monomeri costitutivi d’un tutto conforme in cui essere e apparire coincidono. I selfie in sequenza compulsiva dei social ne paiono la rappresentazione più eloquente. Eppure, in ogni passaggio, anche il più crudo della sua produzione artistica, Poddighe non rinuncia mai all’ironia, non smette di prendere in giro i tempi grami delle sue rappresentazioni, gioca persino con questi come con se stesso. Riesce ad alleggerire il carico pesante della frustrazione. Definisce persino una via di fuga dal contingente, per altri aspetti disegna una prospettiva politica, poiché recupera il senso etimologicamente più puro del termine, quello che deriva dalla Polis greca, sottinteso di impegno e partecipazione. Egli partecipa, infatti, lo fa con competenza da intellettuale, poiché si interroga sui processi. Anche se nelle sue opere permane la percezione di un fatalismo quasi disperato, è proprio quella sottile ironia, quel saper raffigurare con linguaggio schietto l’esistente, che ha insito il superamento dell’alienazione.

Da un punto di vista tecnico spinge al limite il rapporto tra produzione digitale e pittura classica, attraversa in modo personalissimo i segni d’un surrealismo operativo e concreto, in cui il dettaglio non è orpello estetico, diviene, piuttosto, elemento narrativo che manifesta il complexus delle relazioni uomo-oggetto, ne eviscera la perversione.
I due si interrogano sulla follia, lo fanno con consapevolezza piena, superando i paradigmi consueti. Metterli a confronto non è impresa così temeraria, giacché la loro narrazione, mentre si concentra su differenti punti d’osservazione, costruisce un mosaico esatto in cui ogni tessera è un’opera, ciascuna complemento d’un’altra. Si confrontano col significato di follia a partire dal suo presunto opposto, la percezione della “norma”, della “moda”. Monteleone usa, per questo, l’archetipo illustrativo del pazzo, la sua accezione più pura, persino letteraria, scovata nelle parole di Cervantes. I suoi Don Chisciotte appaiono sfumati ed indefiniti, ombre e basta, con lo sfondo di profondità senza tempo, senza spazio. Ombre e basta, perché questa è nell’immaginario collettivo la pazzia, solo l’ombra cui non volgere lo sguardo. È deviazione standard da comportamenti normali, quelli che tengono i più, che accettano codifiche, quali che siano consegne e conseguenze. Il pazzo, il dago, il reietto, il miserabile, meglio non guardarlo, non vederlo, lasciarlo nell’oscurità d’una improbabile indeterminatezza, con lo sfondo colorato e rutilante della “moda” (concetto statistico.matematico, come da definizione “la moda (o norma) di una distribuzione di frequenza X è la modalità (o la classe di modalità) caratterizzata dalla massima frequenza. In altre parole, è il valore che compare più frequentemente). Eppure quella divergenza dal normale esprime bagagli smarriti d’umanità che parole ed immagini riarticolano in pensieri complessi, perché la grammatica della follia è apertura d’orizzonte, ricerca d’utopie, di sogni realizzati. Don Chisciotte partecipa ai destini umani, alla sua immanente schiavitù dell’apparire, alla sua privazione della libertà d’essere, è, in definitiva, l’uomo compiuto.

A quella schiavitù rivolge lo sguardo Poddighe, I suoi sono soggetti perfetti, esteticamente collocati nel cliché della normalità. Soggetti privi di pensiero divergente, dunque incapaci di concepirne uno critico e complesso oltre quello dello stereotipo. Non accettano d’inserirsi nella dialettica sociale in forme conflittuali e partecipative, sono corpi prêt-à-porter, adesioni perfette a modelli preconfezionati, la fantasia al potere è abolita.
Ma l’adesione al cash & carry del quotidiano ha necessità di vittime sacrificali, non accetta gratuità, pretende amputazioni d’umanità, metaforicamente rese negli smembramenti dei corpi.
La dialettica della follia si compone nel dialogo tra i due punti di vista, ne rende efficace la narrazione, va oltre la “norma”, si fa strada nel dubbio. La concezione atavica del “pazzo” si estende, finisce col riguardare il visionario, quello che supera la cortina di fumo dell’apparenza. I due, dunque, propongono una versione alternativa della narrazione consueta, e il “pazzo”, a costo d’essere “espulso” dalla conformità, non rinuncia alla completezza dell’essere umano poiché nella sua natura c’è lo sguardo verso l’oltre, non s’arrende all’ovvio. Rinunciare alla visione altra, produce la follia non dichiarata della convenzione, denuncia d’omologazione sino al definitivo annullamento del singolo, derubricato a numero, ad oggetto.

Oltre la natura umana l’oggetto per Monteleone diventa esperienza trasognata, le sue locomotive ad esempio, prendono vita da segni essenziali, un ritorno ad una dimensione fanciullesca. L’artista guarda i suoi treni come un mondo perduto, li interpreta con divertita nostalgia. Poddighe, invece, studia l’evoluzione dell’uomo al cospetto di quegli oggetti, il processo di progressivo compenetrarsi reciproco, il primo che diviene macchina, ingranaggio asettico e disanimato, il secondo che acquista centralità, che appare dominante.
Questo dialogo a distanza tra due concezioni diverse dell’arte, convergenti nei temi dirimenti dell’oggi, diverrà materiale e tangibile in mostra a Modica, già agli inizi del prossimo anno, a cura dei ragazzi di Immagina (“Dialettica della follia”) e dello spazio L’A/telier (“Visioni loco(e)motive”). Sarà occasione concreta per un andar oltre.

Luciana Perego

Luciana Perego

“Mi appassiona il tema del vuoto quale dimensione in cui le cose accadono, dove il movimento è possibile. Un luogo di risonanza, capace di stimolare la percezione del sacro; un non-luogo spirituale, abissale, dal quale si tenta la fuga attraverso il consumo; uno spazio, al nostro tempo, necessario all’emersione della singola parola e il suo etimo.

I “contenitori del vuoto” attraverso la forma e l’armonia dei colori, esercitano attrazione sulle emozioni; catturano, per poi trattenere dentro il loro impalpabile contenuto.   Giocarci, significa fare spazio alla parola che risuona, quella che vuole essere compresa, mentre il contatto con l’argilla infonde quiete.

La mia produzione è considerevolmente limitata: evito di usare macchine o stampi. Ogni pezzo, creato a lastra, a colombino o con un tornio manuale risponde del momento, dello stato d’animo. Ciò richiede tempo e costringe ad una continua progettazione ma concede un rapporto musicale con la materia, smuove il vissuto, invita a dargli forma e un nome.

Utilizzo l’argilla quale strumento per lavorare con le emozioni: ho messo a punto un particolare modulo di “manipolazione sensoriale”, sapendo che l’argilla, per provenienza dal regno minerale, induce alla quiete e che, per sua natura assorbe e rilascia, favorendo un processo di fioritura

Conosco il fascino dello sperimentare con il fumo e il fuoco, che sono giochi e improvvisazioni tipiche del fare ceramica Raku: essa mi affascina, sorprendente nei risultati cromatici, inattesi, a volte migliori della stessa aspettativa; indomabile nel suo essere materia assorbente esposta all’affumicatura.

Del fare ceramica, penso che non esiste limite alle possibilità. La ceramica è antropologicamente dentro di noi, da sempre accompagna la storia dell’uomo. A lei, spesso mi affido per dare consistenza al mio sentire, sapendo che, come l’acqua, può assumere qualsiasi forma e, in più, la mantiene nel tempo.”

Luciana Perego vive e lavora a Ispica in provincia di Ragusa

VISIONI LOCO(E)MOTIVE PODDIGHE / MONTELEONE

VISIONI LOCO(E)MOTIVE

GENNAIO – FEBBRAIO 2023

di Sergio Poddighe-Ignazio Monteleone

Dialettica della follia : confronti, Ignazio Monteleone e Sergio Poddighe

Una recensione di Giovanni Carbone , Novembre 2022

Non è cosa semplice, mai, far dialogare artisti diversi, ma capita che, al di là di manifeste distanze stilistiche, essi possano esprimere insospettabili convergenze. Ignazio Monteleone e Sergio Poddighe sono, a primo acchito, talmente lontani da non immaginare come le loro opere possano prodursi in un comune percorso narrativo.

Pare abbiano in comune al massimo taluni cenni biografici: sono entrambi siciliani, intanto, e questo non è dato che si possa trascurare, pure se l’uno, Monteleone, nella classicissima categorizzazione degli isolani dello storico direttore dell’Ora Nisticò, è siciliano di scoglio, tenacemente abbarbicato alla sua terra, in un bilico costante che oscilla tra Modica e Palazzo Adriano. L’altro, Poddighe, palermitano di nascita, è più siciliano di mare, ché non si fece scrupolo a lasciare che fossero soltanto furibonde nostalgie e brevissime incursioni a garantirgli il legame con l’isola. Entrambi si sono formati nel mondo delle accademie, quella di Firenze per Monteleone, Poddighe ha invece frequentato Roma. I trascorsi di studio attento sono evidentissimi in perizie tecniche raffinate, evolute in decenni di pratica. Hanno insegnato discipline pittoriche nei licei artistici prima di farsi pensionati praticamente in simultanea.
Dal punto di vista stilistico sono praticamente antipodici. Monteleone appare scanzonato, i suoi soggetti sono ombre che si muovono su tappeti di colore, non è tipo che s’arrende alle cupezza del tutto d’intorno. È, dunque, pittore resistente, già dai tempi in cui non ci s’avvedeva che c’era di che farsi partigiano, piuttosto s’anelava assuefazione. Nel suo atelier-abitazione, un vecchio magazzino riattato all’uopo, si respira storia, si legge sulle pareti un lunghissimo percorso artistico. Si sente il vociare felicemente scomposto dei suoi allievi, cui cerca ancora di tirar fuori estri creativi oltre il tempo scuola. Perché la sua non era la scuola d’un paradigma aristotelico, piuttosto Stoa, caparbia voglia di scoprire i talenti nelle dita e negli occhi dei suoi ragazzi.
Come faceva il Maestro Manzi quando insegnava a leggere e scrivere a milioni di italiani, lui smantella sovrastrutture per liberare la creazione d’un linguaggio nuovo, non soggetto ai valutatoi prescrittivi del contemporaneo. I suoi lavori aderiscono alla ricerca incessante della bellezza attraverso un tratto apparentemente ingenuo, mossa efficace e spiazzante contro la sproporzione delle forze in campo. Corvi e Vele e il giallo (“ch’è colore bastardo”), il suo Don Chisciotte, le sette palme che danzano, i treni a vapore oscillano tra nostalgie e gioco autentico. Ignazio, che è figlio di ferroviere, come lo furono Quasimodo e Vittorini dalle stesse parti, sa cosa c’è da aspettarsi ad ogni stazione, ad ogni fermata, i fazzoletti levati al cielo, umidi di lacrime e colorati di rossetti, fasci di palme stesi ad asciugare per una domenica di festa. La sua opera è preziosa poiché non si limita ad esporsi, invita al convivio, come le sue mostre, dove è quinta condivisa di pomodori e caci, olive, uova sode e pani caldi, manco a dirlo, vini pista e ammutta che incendiano le budella col gusto della terra bruciata dal sole. Le note di Schifano ci sono tutte, inseguite dai suoi studi fiorentini, messaggi di avanguardie isolane ed approdi per ogni continente. Colori precisi e tratti sfumati, contorni nitidi e ombre fuggenti, nel tutto che si disincrosta dell’eccesso sino a renderci l’essenza del pensiero più autentico, sono la sintesi dell’oggetto che amplifica la nostalgia per le forme esatte. Quadri che fanno suoni, melodie di motori sbuffanti, scalpiccio di zoccoli e fruscii di piume, ma pure odori forti, commenti soffusi. risa giuste. Il suo lavoro di anni, le sue opere, sono barricate altissime che provano a reggere a difesa degli ultimi presidi d’umanità.
I lavori di Poddighe, invece, hanno più l’apparenza di desolata contemplazione del tramonto dell’uomo, sono la rappresentazione esatta della disumanizzante mercificazione dei suoi sogni.

I desideri umani perdono completamente il carattere di processo decisionale autonomo, sono eterodiretti, rappresentano adesione incondizionata ed acritica ad un unico modello prescrittivo. L’uomo stesso appare come entità devitalizzata, relegata alla parzialità dell’essere, dunque, incompleta, mutilata, che rincorre l’effimero come unica vacua speranza compensativa. Riempie i propri vuoti creandone di nuovi, rincorre le proprie ansie costruendone di ulteriori, mai definitivamente consapevole del proprio progressivo svuotamento. Con l’avvento del capitalismo, l’uomo cede dapprima una quota parte del suo tempo al lavoro alienato, allo sfruttamento, al giogo produttivo, poi rinuncia a ciò che resta del suo vissuto per destinarlo al consumo, quindi, esaurito pure quel tempo, diviene esso stesso merce. E l’uomo-merce è ridotto a mera immagine, si autoriproduce in forme standardizzate e seriali, non ritiene alcuna identità, è solo un piccolo ingranaggio della gigantesca macchina della massificazione produttiva. Il suo è un richiamo alla società dello spettacolo che annichilisce i singoli, li relega a monomeri costitutivi d’un tutto conforme in cui essere e apparire coincidono. I selfie in sequenza compulsiva dei social ne paiono la rappresentazione più eloquente. Eppure, in ogni passaggio, anche il più crudo della sua produzione artistica, Poddighe non rinuncia mai all’ironia, non smette di prendere in giro i tempi grami delle sue rappresentazioni, gioca persino con questi come con se stesso. Riesce ad alleggerire il carico pesante della frustrazione. Definisce persino una via di fuga dal contingente, per altri aspetti disegna una prospettiva politica, poiché recupera il senso etimologicamente più puro del termine, quello che deriva dalla Polis greca, sottinteso di impegno e partecipazione. Egli partecipa, infatti, lo fa con competenza da intellettuale, poiché si interroga sui processi. Anche se nelle sue opere permane la percezione di un fatalismo quasi disperato, è proprio quella sottile ironia, quel saper raffigurare con linguaggio schietto l’esistente, che ha insito il superamento dell’alienazione.

Da un punto di vista tecnico spinge al limite il rapporto tra produzione digitale e pittura classica, attraversa in modo personalissimo i segni d’un surrealismo operativo e concreto, in cui il dettaglio non è orpello estetico, diviene, piuttosto, elemento narrativo che manifesta il complexus delle relazioni uomo-oggetto, ne eviscera la perversione.
I due si interrogano sulla follia, lo fanno con consapevolezza piena, superando i paradigmi consueti. Metterli a confronto non è impresa così temeraria, giacché la loro narrazione, mentre si concentra su differenti punti d’osservazione, costruisce un mosaico esatto in cui ogni tessera è un’opera, ciascuna complemento d’un’altra. Si confrontano col significato di follia a partire dal suo presunto opposto, la percezione della “norma”, della “moda”. Monteleone usa, per questo, l’archetipo illustrativo del pazzo, la sua accezione più pura, persino letteraria, scovata nelle parole di Cervantes. I suoi Don Chisciotte appaiono sfumati ed indefiniti, ombre e basta, con lo sfondo di profondità senza tempo, senza spazio. Ombre e basta, perché questa è nell’immaginario collettivo la pazzia, solo l’ombra cui non volgere lo sguardo. È deviazione standard da comportamenti normali, quelli che tengono i più, che accettano codifiche, quali che siano consegne e conseguenze. Il pazzo, il dago, il reietto, il miserabile, meglio non guardarlo, non vederlo, lasciarlo nell’oscurità d’una improbabile indeterminatezza, con lo sfondo colorato e rutilante della “moda” (concetto statistico.matematico, come da definizione “la moda (o norma) di una distribuzione di frequenza X è la modalità (o la classe di modalità) caratterizzata dalla massima frequenza. In altre parole, è il valore che compare più frequentemente). Eppure quella divergenza dal normale esprime bagagli smarriti d’umanità che parole ed immagini riarticolano in pensieri complessi, perché la grammatica della follia è apertura d’orizzonte, ricerca d’utopie, di sogni realizzati. Don Chisciotte partecipa ai destini umani, alla sua immanente schiavitù dell’apparire, alla sua privazione della libertà d’essere, è, in definitiva, l’uomo compiuto.
A quella schiavitù rivolge lo sguardo Poddighe, I suoi sono soggetti perfetti, esteticamente collocati nel cliché della normalità. Soggetti privi di pensiero divergente, dunque incapaci di concepirne uno critico e complesso oltre quello dello stereotipo. Non accettano d’inserirsi nella dialettica sociale in forme conflittuali e partecipative, sono corpi prêt-à-porter, adesioni perfette a modelli preconfezionati, la fantasia al potere è abolita.
Ma l’adesione al cash & carry del quotidiano ha necessità di vittime sacrificali, non accetta gratuità, pretende amputazioni d’umanità, metaforicamente rese negli smembramenti dei corpi.
La dialettica della follia si compone nel dialogo tra i due punti di vista, ne rende efficace la narrazione, va oltre la “norma”, si fa strada nel dubbio. La concezione atavica del “pazzo” si estende, finisce col riguardare il visionario, quello che supera la cortina di fumo dell’apparenza. I due, dunque, propongono una versione alternativa della narrazione consueta, e il “pazzo”, a costo d’essere “espulso” dalla conformità, non rinuncia alla completezza dell’essere umano poiché nella sua natura c’è lo sguardo verso l’oltre, non s’arrende all’ovvio. Rinunciare alla visione altra, produce la follia non dichiarata della convenzione, denuncia d’omologazione sino al definitivo annullamento del singolo, derubricato a numero, ad oggetto.

Oltre la natura umana l’oggetto per Monteleone diventa esperienza trasognata, le sue locomotive ad esempio, prendono vita da segni essenziali, un ritorno ad una dimensione fanciullesca. L’artista guarda i suoi treni come un mondo perduto, li interpreta con divertita nostalgia. Poddighe, invece, studia l’evoluzione dell’uomo al cospetto di quegli oggetti, il processo di progressivo compenetrarsi reciproco, il primo che diviene macchina, ingranaggio asettico e disanimato, il secondo che acquista centralità, che appare dominante.
Questo dialogo a distanza tra due concezioni diverse dell’arte, convergenti nei temi dirimenti dell’oggi, diverrà materiale e tangibile in mostra a Modica, già agli inizi del prossimo anno, a cura dei ragazzi di Immagina (“Dialettica della follia”) e dello spazio L’A/telier (“Visioni loco(e)motive”). Sarà occasione concreta per un andar oltre.

In Contemporanea, in estemporanea

In Contemporanea, in estemporanea

di Giovanni Carbone
Ottobre 2022

È ottima idea quella di istituire la Giornata del Contemporaneo da parte dell’AMACI (Associazione dei Musei d’Arte Contemporanea Italiani), soprattutto in evidenza dello stato di cose nel mondo dell’arte in questo paese. Le prospettive non sembrano essere più rosee per il futuro, dunque, battere un colpo non è cosa di trascurabile rilevanza. Far bilanci sullo stato dell’arte contemporanea in Italia sarebbe comunque arduo, l’ambito pare sempre più relegato ad una nicchia estremamente specializzata, dentro cui l’artista tende progressivamente a perdere centralità a favore d’altri soggetti. L’arte non dialoga con altro se non con se stessa e, di più, a costruire tale dialogo non sono più nemmeno i soggetti che vi sono deputati, soppiantati nella propria capacità decisionale da regole altre, eterodirette, mercantili, d’appartenenza quasi religiosa a scuderie di critiche e curatele. I luoghi dell’arte paiono cittadelle fortificate, che si concedono per liberalità del principe ad apparenza di libera fruizione, purché non se ne rimetta in discussione l’edificazione, il funzionamento della macchina.

L’A/telier di Modica Alta, crea una rottura paradigmatica rispetto all’esistente, perché non compete con le grandi istituzioni culturali dell’arte contemporanea, non costruisce l’evento dirompente ed archetipico, sposta il confronto in una dimensione altra, non convenzionale, estemporanea, crea il non luogo dell’arte per tornare all’arte attraverso una sua narrazione altra.

La sua adesione, insieme agli artisti di MATT’Officina (di loro, del loro spazio, se ne parla qui), alla giornata dell’8 Ottobre rivede la logica del taglio del nastro, la fascia istituzionale, la fanfara. Sostituisce la liturgia del consueto con la pratica all’interno d’un contesto spiazzante, il quartiere, la strada, il centro storico che si spopola, che non riesce a farsi spazio in angoli di cartolina, dentro la contraddizione delle città che ridisegnano il proprio skyline di modernità, rimuovono la dialettica sociale, i sistemi di relazione. La città convenzionale che ospita il “contemporaneo”, è quella che si è palesata: “Lo spazio urbano assembrato diventa fantasma della sua crescita indiscriminata, sempre più privato, sempre meno pubblico, sociale, definitivamente distanziato, come nei giochi d’ossimori si compete, tanto più è affollato. Il reale, trasformato in immagine spettacolare, è quinta scenografica d’una rappresentazione farsa, in cui le mura cingono d’assedio gli assedianti, non più le mura di Campanella dov’è la storia della scienza, il progetto educativo condiviso dei destini magici e progressivi dell’uomo.

 

Le mura s’attrezzano a prigioni da cui non s’evade, ma dentro cui ci si rinchiude spontaneamente, sovvertendo l’ordine mentale costituito, quello che cerca l’orizzonte libero e di vertigine dello sguardo dell’animale in gabbia. Dunque, l’animale in gabbia, alla catena, ha qualcosa di più umano dell’umanità stessa, poiché invoca per sé lo spazio aperto, rifugge dal pericolo mortale dell’assalto all’unisono alla stessa preda. Le immagini degli eloquenti muri della città ideale di Platone, sono ora grate elettrificate e luminescenti, gli orrori della merce che trabocca dalla caricatura d’una cornucopia di svendite morali e materiali.
Pure l’effimero artistico, in quanto concetto, sparisce nelle celle delle fiumane umane, diventa superfluo necessario, vocazione definitiva alla barbarie annichilente. Le architetture/prigioni delle periferie commerciali, e di dormitori, pure quelle di centri storici mercatizzati, non sono innocenti oggetti devitalizzati, ma espressione urlante del potere sociale che reclama le sue vittime. E se l’agnello o l’orrendo porco, s’avvedono del loro imminente sacrificio all’altare della tavola imbandita, con lacrima ed urlo straziante, il residuo umano vi s’immola con fanciullesca indifferenza. La progressione verso la forma estrema del mercato, il narcisismo individualista, ha soppiantato persino le oscene gerarchie dei rapporti di produzione convenzionali.

Ed il consumo diventa religione di stato, di sovrastato, religione della religione. Solo il lavoro rende liberi in quanto apre la via alla speranza redentiva del consumo, del consumo d’una merce, purché sia, pure solo nella sua percezione virtuale e fuggente. Le città assaltate hanno perso ormai persino quel flebile richiamo al modernismo, financo superato le creazioni monolitiche della dittatura ceauseschiana, le volontà di Marinetti di deviare canali per affogare la vetusta Venezia, o Le Corbusier che anelava l’autostrada che spaccasse in due Parigi. Gli spazi vitali non esistono se non nel sentire, ormai folle, di chi deraglia dalla “normalità” di chi è persona e non gente. La follia è solo di quei pochi che s’avvedono della malattia come dolorosa e furente.” Dunque, si prova a far altro, con apparente follia. Con la quinta aperta dell’esposizione di Pamela Vindigni e Unica, gli artisti associati di MATT’Officina, Pamela Vindigni, Grazia Ferlanti, Marco Terroni Grifola, Giuseppe Kastano, Wildart, Luca Del Guercio, sulla strada, in via Pizzo, a Modica Alta, produrranno arte, in estemporanea, dialogando tra loro, con chi interviene, con chi è solo di passaggio, col contesto, riesumando fantasie sepolte, condivisioni che parevano perdute per sempre.

La fanfara sarà la chitarra di Stefano Meli, capace di rifilare staffilate metalliche e polverose alle traiettorie desuete del convenzionale, far vibrare note d’esplorazione di spazi aperti sulla vertigine di imprevedibili infiniti. Quegli infiniti che l’arte “giusta” preserva per sé e per chi ha occhi giusti a guardare, certe qualità dell’anima che non s’attestano sulle posizioni di banali obbedienze.

 

Situazione 1 – Modica Alta

Giornata del Contemporaneo, promossa da AMACI – Associazione dei Musei d’Arte Contemporanea Italiani.

L’A/telier -Via Pizzo 42- Modica Alta (RG)

…Nostra idea centrale è quella della costruzione di situazioni: vale a dire la costruzione concreta di ambienti temporanei di vita, e la loro trasformazione in una qualità passionale superiore…Dobbiamo tentare di costruire situazioni, vale a dire ambienti collettivi, un insieme di impressioni che determinano la qualità di un momento…
Internazionale Situazionista

ARTISTI IN ESTEMPORANEA

Ore 17.00 – Pamela Vindigni – Sculture (Modica), Unica-Textil Art (Basilea-Svizzera)
Elaborazioni artistiche in strada degli artisti associati MATT’ Officina: Pamela Vindigni, Grazia Ferlanti, Marco Terroni GRIFOLA, Giuseppe Kastano, Wildart, Luca Del Guercio.
Ore 19.00 – Aperitivo
Ore 20.30 – Intervento musicale di Stefano Meli alla chitarra elettrica

Altre storie di donne: Unica e Pamela Vindigni

Altre storie di donne
(Allonsanfàn parte sedicesima:
Unica e Pamela Vindigni)

di Giovanni Carbone
Settembre 2022

Unica e Pamela Vindigni, in mostra dal 24 settembre allo spazio L’Altelier di Modica Alta, paiono artiste diverse, hanno storie e linguaggi differenti, biografie ed origini lontane, eppure, attraverso le loro opere, concepiscono un dialogo di convergenze, sorprendentemente affine.

Usano la materia in modo personale, riconoscibilissimo, la plasmano per consentirsi una profonda esplorazione d’un universo di genere – quello femminile – ce lo rendono, entrambe, in una prospettiva liberata. Partono, dunque, da sponde antipodiche, approdano insieme, al di là delle costrizioni dell’apparire, del metodo, compiono lo stesso viaggio di ri-scoperta.

Unica and Pamela Vindigni, on display from 24 September at the L’Altelier in Modica Alta, they seem different artists, have different stories and languages, biographies and distant origins, yet, through their works, they conceive a dialogue of convergences, surprisingly similar. They use matter in a personal, highly recognizable way, shape it to allow a profound exploration of a gender universe – the female one – both make it in a freed perspective. They start, therefore, from antipodic banks, land together, beyond the constraints of appearing, of the method, make the same journey of re-discovery.

Leonie Adler (Unica) è artista contemporanea, nata a Pune, in India, con radici irlandesi, è cresciuta e vive in Svizzera. La sua anagrafica non è, come appare dalle sue realizzazioni, un dato neutro, un timbro su un passaporto, è elemento pregnante della sua formazione artistica. Infatti, le sue forme geometriche esatte, disegni ad ago e filo, esprimono un’attrazione fatale per l’ambiente, lo interpretano quale contenitore di culture, ella stessa è consapevolmente scrigno di diversità che si uniscono ad ogni passaggio d’ordito. Il contrasto cromatico tra le sue forme ne evidenzia il desiderio di riscoperta, induce alla ricerca d’un viaggio intimo nello spazio e nel tempo attraverso traiettorie spiazzanti, un susseguirsi di cambiamenti repentini di direzione, quasi a voler significare la ricerca precisa del dettaglio, il non volersi precludere nulla che le appartiene, che appartiene al tutto d’intorno.

Ma è anche desiderio di fuga da quotidiani standardizzati e labirintici, il rifiuto di direzioni preconfezionate, della banalità prêt-à-porter. Nonostante la scelta del filo, dell’ago, dunque, Unica non rassomiglia affatto alla più celebre delle tessitrici, non è Penelope, i suoi complessi intrecci non sono trame che si sfilacciano, si scuciono, ma memoria di una direzione precisa ancorché mai scontata, flusso di informazioni che non si esaurisce ma che fa d’ogni passaggio condizione essenziale per l’esistenza del successivo. Rassomiglia ad Arianna, invece, i suoi orditi indicano percorsi salvifici di liberazione, includono la possibilità del ritorno. In quel tornare a casa, alle sue radici, come nelle articolazioni più complesse dell’intimo, non v’è mai ricerca appagante di staticità, d’un passato che invecchiato si trasforma in presente, ma la prospettiva d’un nuovo viaggio, di nuove esperienze che, a paradosso di apparenza d’accumulo, lo rendano ogni volta più leggero, più agile.

Pare che Unica si ricerchi, si ritrovi, infine, nelle sue origini, nelle sue infinite discendenze, e su quelle può contare – paesaggi della memoria d’un vissuto – come intensa scarica emozionale per una nuova ripartenza. In buona parte autodidatta, ha tuttavia assorbito perfettamente le prospettive artistiche di Louise Bourgeoise e dell’artista tessile svizzera Lissy Funk. È anche membro dell’associazione artistica GAAL.

Pamela Vindigni, siciliana di Modica (RG), è artista di tecnica raffinata, frutto di studi all’Accademia di Belle Arti di Firenze e di una vasta attività esperienziale. Ha partecipato a diverse mostre collettive e personali, esplorando, oltre alla pittura ed alla scultura, altri linguaggi espressivi ed esibendosi quale attrice e performer. La sua visione dell’arte è sociale, solidaristica, non prescinde mai dal rapporto dialettico con altre forme del linguaggio e della comunicazione. Questi tratti fondanti la sua pratica l’hanno indotta a fondare, nel 2017, il gruppo “Artisti Associati – Matt’Officina”, impegnato nella riqualificazione dell’ex mattatoio comunale di Modica e divenuto un laboratorio artistico polivalente, un luogo di produzione collettiva e creativa oltre che di accoglienza d’esperienze.

Le sue sculture riscoprono la natura primigenia del corpo, lo denudano delle sovrastrutture, lo spogliano dell’effimero, lasciano che si esprima quale strumento di comunicazione essenziale. Alcuni suoi volti, scarni d’espressione, pare leggano negli accadimenti una sostanziale disumanizzazione. Pamela Vindigni, quando si concentra sulle forme delle donne, le libera da costrizioni, da stereotipi arcaici. Rappresenta la maternità con ironia, sottolineando al contempo una specificità di genere e smantellando la subcultura patriarcale che relega le donne al ruolo esclusivo e subalterno di madre e moglie.

La leggerezza con cui ci rende la gravidanza non è, dunque, solo la rappresentazione prossima del parto quale passaggio funzionale alla procreazione, alla conservazione della specie, cui deve seguire la gabbia totalizzante della cura parentale, ma diviene, anche e soprattutto, metafora di concepimenti, elaborazioni, pratiche creative ed irrinunciabili, di idee, progetti, riscritture sociali e politiche. L’opera di Pamela è, in effetti, “politica”, non nel senso deteriore che oramai s’attribuisce al termine, ma in quello che ne recupera il significato etimologicamente più puro e profondo, dal concetto di Polis, il contenitore per eccellenza del desiderio di partecipazione. È pratica che aderisce ai processi sociali, alle vicende comuni, li legge, intende rideterminarli anche, con consapevolezza d’analisi, abilità d’usare strumenti espressivi plurimi e mai scontati, volontà di esserci con la propria identità di genere, di persona, d’artista.

Leonie Adler (UNICA) is a contemporary artist, born in Pune, India, with Irish roots, grew up and lives in Switzerland. His registry is not, as appears from his creations, a neutral data, a stamp on a passport, he is a meaningful element of his artistic training. In fact, its exact geometric shapes, needle and thread designs, express a fatal attraction for the environment, interpret it as a container of cultures, she herself is consciously a casket of diversity that unites with each passage of warp. The chromatic contrast between its forms highlights its desire for rediscovery, leads to the search for an intimate journey through space and time through surprising trajectories, a succession of sudden changes of direction, as if to mean the precise search for detail, not wanting to preclude anything that belongs to it, which belongs to the whole.

 

But it is also a desire to escape from standardized and labyrinthine newspapers, the refusal of pre-packaged directions, of prêt-à-porter banality. Despite the choice of the thread, the needle, therefore, the only one does not resemble the most famous of the weavers at all, it is not Penelope, its complex weaves are not weaves that fray, they unstitch, but memory of a precise direction even if never taken for granted, a flow of information that does not end but that makes every passage essential condition for the existence of the next. It resembles Ariadne, however, his warps indicate salvific paths of liberation, include the possibility of returning. In that returning home, at its roots, as in the most complex articulations of the intimate, there is never a fulfilling search for static, a past that aged turns into the present, but the prospect of a new journey, new experiences that, paradoxically, make it more agile.

 

It seems that unique is sought, finally, in its origins, in its infinite descendants, and on those it can count – landscapes of the memory of a lived experience – as an intense emotional discharge for a new restart. In large part self-taught, however, he perfectly absorbed the artistic prospects of Louise Bourgeoise and the Swiss textile artist Lissy Funk. She is also a member of the Gaal Artistic Association.

Pamela Vindigni, Sicilian from Modica (RG), is an artist of refined technique, the result of studies at the Academy of Fine Arts in Florence and a vast experiential activity. She has participated in several collective and personal exhibitions, exploring, in addition to painting and sculpture, other expressive languages and performing as an actress and performer. His vision of art is social, solidarity, it never ignores the dialectical relationship with other forms of language and communication. These founding traits of her practice led her to found, in 2017, the group “Associated Artists – Matt’Officina”, engaged in the redevelopment of the former municipal slaughterhouse of Modica and which became a multipurpose artistic laboratory, a place of collective and creative production as well as welcoming experiences. His sculptures rediscover the primal nature of the body, they undress superstructures, strip him of the ephemeral, let it be expressed as an essential communication tool. Some of his faces, skinny of expression, seem to read a substantial dehumanization in events.

Pamela Vindigni, when she focuses on the forms of women, frees them from constraints, from archaic stereotypes. It represents motherhood with irony, while underlining a gender specificity and dismantling the patriarchal subculture that relegates women to the exclusive and subordinate role of mother and wife.

 

The lightness with which it makes us pregnancy is not, therefore, only the close representation of childbirth as a functional passage to procreation, to the conservation of the species, which must be followed by the totalizing cage of parental care, but also and above all becomes a metaphor for conceptions, elaborations, creative and indispensable practices, ideas, projects, social and political rewrites. Pamela’s work is, in effect, “political”, not in the inferior sense that is now attributed to the term, but in that which recovers its etymologically purest and deepest meaning, from the concept of polis, the container par excellence of the desire to participate. It is a practice that adheres to social processes, to common events, reads them, intends to redefine them also, with awareness of analysis, ability to use multiple expressive tools and never taken for granted, willingness to be there with their own gender identity, as a person, as an artist.

TEXTIL ART + SCULTURE

TEXTIL ART + SCULTURE

SETTEMBRE – OTTOBRE 2022

di Unica e Pamela Vindigni

Unica e Pamela Vindigni, in mostra dal 24 settembre allo spazio L’Altelier di Modica Alta, paiono artiste diverse, hanno storie e linguaggi differenti, biografie ed origini lontane, eppure, attraverso le loro opere, concepiscono un dialogo di convergenze, sorprendentemente affine.

Usano la materia in modo personale, riconoscibilissimo, la plasmano per consentirsi una profonda esplorazione d’un universo di genere – quello femminile – ce lo rendono, entrambe, in una prospettiva liberata. Partono, dunque, da sponde antipodiche, approdano insieme, al di là delle costrizioni dell’apparire, del metodo, compiono lo stesso viaggio di ri-scoperta.

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TEXTIL ART

di Unica

L’artista

SCULTURE

di Pamela Vindigni

L’artista

NERO PINOCCHIO

NERO PINOCCHIO

LUGLIO – SETTEMBRE 2022

di Raffaello De Vito

La schietta e nitida visione del romanzo di Collodi ne sostiene la polimorfica struttura che da sempre offre lo spunto a molteplici interpretazioni, qui in maniera volutamente frammentaria, a porzioni, quasi dispensando si vuole portare davanti all’occhio dello spettatore il carattere più cupo del racconto, il suo substrato gotico, aspetti che nell’immaginario collettivo, anche grazie a letture edulcorate come quella di Disney, tendono generalmente a smarrirsi.

Quella che può sembrare una sfumatura letteraria è invece ora innegabilmente la realtà del nostro mondo quotidiano: Pinocchio raggirato, incatenato, sfruttato, accoltellato, impiccato, ingiustamente imprigionato vive la similare condizione dei migranti in arrivo nel “bel paese dei balocchi”.

La nostra fiaba, così come le vicende di sopraffazione e violenza che troppo spesso accompagnano l’integrazione dei migranti di ogni terra, in ogni epoca, sono la chiave di lettura di questo frammento di “Nero Pinocchio”.

Raffaello De Vito

The blunt and sharp vision of the novel by Collodi supports the polymorphic structure that has always provided the key to multiple interpretations. In a deliberately patchy fashion, almost in parceled-out allotments, the goal is to show the reader the gloomiest nature of the story and its underlying Gothic vision; these are aspects that in the collective fictitious world, thanks to sugarcoated readings such as Disney’s, tend to get lost.

What may seem like a literary nuance is the undeniable reality of our everyday world: Pinocchio conned, chained, exploited, stabbed, hung, arrested, and unjustly imprisoned, embodies a similar situation to that of the migrants arriving in the „beautiful land of toys.“

Our fairy tale, as well as the stories of abuse and violence that too often go along with the amalgamation of migrants from every land and every era, are the key to the reading of this section of “Black Pinocchio.”

Raffaello De Vito

Die ehrliche und ungetrübte Lektüre von Pinocchio setzt am polymorphen Aufbau des Romans von Collodi an, der schon seit seiner Entstehung zur vieldeutigen Interpretation einlud, die sich hier gewollt fragmentarisch darstellt, fast als wolle man sie dem Betrachter in Portionen servieren, um ihm die düstersten Aspekte, deren gotisches Substrat, vor Augen zu führen.

Das heißt genau die Seiten, die – dank der Verniedlichung durch Disney und ähnlichen Versionen – dazu tendieren, dem kollektiven Bewusstsein abhanden zu kommen. Aus dem, was manchem eine literarische Feinheit zu sein scheint, wurde heute unleugbar eine Realität des alltäglichen Lebens.

Pinocchio, der betrogen, in Ketten gelegt, ausgebeutet, erdolcht, gehenkt verhaftet und ungerechterweise eingekerkert wird, macht Ähnliches durch wie die Migranten aller Herren Länder und aller Zeit, dies ist der Interpretationsschlüssel, um unsere fragmentarische Darstellung des “Nero Pinocchio” zu erschließen.

Raffaello De Vito

L’artista

RECENSIONI

Nero Pinocchio (Allonsanfàn parte quattordicesima: Raffaello De Vito)

di Giovanni Carbone

Le atrocità sollevano unindignazione minore, quanto più le vittime sono dissimili dai normali lettori, quanto più sono more”, sudice”, dago. Questo fatto illumina le atrocità non meno che le reazioni degli spettatori. (…) Laffermazione ricorrente che i selvaggi, i negri, i giapponesi, somigliano ad animali, o a scimmie, contiene già la chiave del pogrom. Della cui possibilità si decide nellistante in cui locchio di un animale ferito a morte colpisce luomo. Lostinazione con cui egli devia da sé quello sguardo – “non è che un animale” – si ripete incessantemente nelle crudeltà commesse sugli uomini, in cui gli esecutori devono sempre di nuovo confermare a se stessi il non è che un animale”, a cui non riuscivano a credere neppure nel caso dellanimale. Nella società repressiva il concetto stesso delluomo è la parodia delluguaglianza di tutto ciò che è fatto ad immagine di Dio. Fa parte del meccanismo della proiezione morbosa” che i detentori del potere avvertano come uomo solo la propria immagine, anziché riflettere lumano proprio come il diverso”. (Theodor Adorno)

Raffaello De Vito è fotografo raffinato, dotato di grande tecnica, padronanza degli strumenti. Ma non ne fa uso consueto, non ricerca perfezione d’immagini e basta, studia, concepisce, elabora narrazioni complesse. Il suo Nero Pinocchio”, in mostra prima a Basilea, poi all’Altelier di Modica Alta (Luglio-Settembre 2022), è il recupero della vicenda del burattino secondo una rilettura analitica e controcorrente – o forse spietatamente corretta – delle pagine Collodi, attraverso il filtro efficacissimo della sua trasposizione televisiva di Comencini.

Il burattino di De Vito si riappropria di atmosfere gotiche, minimaliste, sopite allo sguardo da trascorsi rassicuranti e consueti, come nelle illustrazioni “educative” del Dorè, o filmiche, manichee, edulcorate delle animazioni disneyane. Denuncia l’inadeguatezza di quelle rappresentazioni, disdegna con sguardo arguto l’idea del burattino che diviene finalmente bimbo in carne ed ossa solo dopo un percorso di crescita di consapevolezze cash & carry.

De Vito centra la quinta scenografica della vicenda nell’estremo miserabile del mondo degli ultimi, ma non ne fa riproposizione compassionevole, pietistica. Ne disvela piuttosto l’essenza materiale, non indugia in infingimenti, nemmeno produce moralismi.

Il suo Pinocchio, come quello di Comencini, attraversa l’orrore della violenza (le torture di Abu Ghraib, la grottesca umiliazione dei prigionieri chiusi in sai pinocchieschi, appunto), è vittima di giustizie ingiuste (il carabiniere non ha sguardo umano, è solo divisa, financo nello sguardo), attraversa l’effimero eldorado del paese dei balocchi, la sconfinata illusione d’una vita altra, viene ingannato, vilipeso. Pinocchio, dunque, nella narrazione di De Vito, è burattino per sempre, vittima assoluta, paga pegno per la sua deviazione dal consueto.

È personaggio contemporaneo, si riaffaccia all’oggi nelle parallele forme del migrante, con le sue identità annullate, marginalizzato, respinto, vilipeso, torturato, sfruttato, ridotto a clandestinità permanente.

Il Gatto e la Volpe dialogano negli abiti più consoni al loro ruolo di predatori, non solo di qualche moneta, d’umanità. Sono gli incappucciati del Ku Klux Klan, paiono divertirsi nel pianificare la caccia all’ultimo, la sua definitiva marginalizzazione. I volti celati nascondono nature social, di piazza virtuale che urla a nuove, abbondanti impiccagioni, crocifissioni.

Mangiafuoco è convitato di pietra d’ogni immagine, non è soggetto riconoscibile, non è immagine precisa in quanto sistemico, artefice del circo della filiera lunga, massimizzatore di profitti, si nutre dei nuovi schiavi.

È il 100% italiano che esclude da tracce percentuali nazionalità di braccia invisibili, corpi depredati. Pinocchio è bracciante senza nome, sconta identità sottratta, corpo dimenticato, spiaccicato sui prodotti dell’”eccellenza” a cottimo, un tanto al chilo, archetipo illustrativo d’operare di caporalati collettivi.

C’è più di qualche congruenza in “Nero Pinocchio” con l’essenza stessa dell’originale collodiano, se ne coglie il ribaltamento paradigmatico della visione consueta, in un certo senso la narrazione è compiuta, con la sua vertigine dialettica. Come per un fiume carsico De Vito fa riemergere la critica profonda a realtà che parevano dimenticate, da quel tempo di secolo nobile, e che, invece, sopravvivono, invisibili, sotto traccia, spaventose come allora.

Modica 18 Luglio 2022

Nero Pinocchio: Raffaello De Vito

Nero Pinocchio
Allonsanfàn parte quattordicesima:
Raffaello De Vito

di Giovanni Carbone
Modica, 18 luglio 2022

Le atrocità sollevano unindignazione minore, quanto più le vittime sono dissimili dai normali lettori, quanto più sono more”, sudice”, dago. Questo fatto illumina le atrocità non meno che le reazioni degli spettatori. (…) Laffermazione ricorrente che i selvaggi, i negri, i giapponesi, somigliano ad animali, o a scimmie, contiene già la chiave del pogrom. Della cui possibilità si decide nellistante in cui locchio di un animale ferito a morte colpisce luomo. Lostinazione con cui egli devia da sé quello sguardo – “non è che un animale” – si ripete incessantemente nelle crudeltà commesse sugli uomini, in cui gli esecutori devono sempre di nuovo confermare a se stessi il non è che un animale”, a cui non riuscivano a credere neppure nel caso dellanimale. Nella società repressiva il concetto stesso delluomo è la parodia delluguaglianza di tutto ciò che è fatto ad immagine di Dio. Fa parte del meccanismo della proiezione morbosa” che i detentori del potere avvertano come uomo solo la propria immagine, anziché riflettere lumano proprio come il diverso”. (Theodor Adorno)

Raffaello De Vito è fotografo raffinato, dotato di grande tecnica, padronanza degli strumenti. Ma non ne fa uso consueto, non ricerca perfezione d’immagini e basta, studia, concepisce, elabora narrazioni complesse. Il suo Nero Pinocchio”, in mostra prima a Basilea, poi all’Altelier di Modica Alta (Luglio-Settembre 2022), è il recupero della vicenda del burattino secondo una rilettura analitica e controcorrente – o forse spietatamente corretta – delle pagine Collodi, attraverso il filtro efficacissimo della sua trasposizione televisiva di Comencini.

Il burattino di De Vito si riappropria di atmosfere gotiche, minimaliste, sopite allo sguardo da trascorsi rassicuranti e consueti, come nelle illustrazioni “educative” del Dorè, o filmiche, manichee, edulcorate delle animazioni disneyane. Denuncia l’inadeguatezza di quelle rappresentazioni, disdegna con sguardo arguto l’idea del burattino che diviene finalmente bimbo in carne ed ossa solo dopo un percorso di crescita di consapevolezze cash & carry.

De Vito centra la quinta scenografica della vicenda nell’estremo miserabile del mondo degli ultimi, ma non ne fa riproposizione compassionevole, pietistica. Ne disvela piuttosto l’essenza materiale, non indugia in infingimenti, nemmeno produce moralismi.

Il suo Pinocchio, come quello di Comencini, attraversa l’orrore della violenza (le torture di Abu Ghraib, la grottesca umiliazione dei prigionieri chiusi in sai pinocchieschi, appunto), è vittima di giustizie ingiuste (il carabiniere non ha sguardo umano, è solo divisa, financo nello sguardo), attraversa l’effimero eldorado del paese dei balocchi, la sconfinata illusione d’una vita altra, viene ingannato, vilipeso. Pinocchio, dunque, nella narrazione di De Vito, è burattino per sempre, vittima assoluta, paga pegno per la sua deviazione dal consueto.

È personaggio contemporaneo, si riaffaccia all’oggi nelle parallele forme del migrante, con le sue identità annullate, marginalizzato, respinto, vilipeso, torturato, sfruttato, ridotto a clandestinità permanente.

Il Gatto e la Volpe dialogano negli abiti più consoni al loro ruolo di predatori, non solo di qualche moneta, d’umanità. Sono gli incappucciati del Ku Klux Klan, paiono divertirsi nel pianificare la caccia all’ultimo, la sua definitiva marginalizzazione. I volti celati nascondono nature social, di piazza virtuale che urla a nuove, abbondanti impiccagioni, crocifissioni.

Mangiafuoco è convitato di pietra d’ogni immagine, non è soggetto riconoscibile, non è immagine precisa in quanto sistemico, artefice del circo della filiera lunga, massimizzatore di profitti, si nutre dei nuovi schiavi.

È il 100% italiano che esclude da tracce percentuali nazionalità di braccia invisibili, corpi depredati. Pinocchio è bracciante senza nome, sconta identità sottratta, corpo dimenticato, spiaccicato sui prodotti dell’”eccellenza” a cottimo, un tanto al chilo, archetipo illustrativo d’operare di caporalati collettivi.

C’è più di qualche congruenza in “Nero Pinocchio” con l’essenza stessa dell’originale collodiano, se ne coglie il ribaltamento paradigmatico della visione consueta, in un certo senso la narrazione è compiuta, con la sua vertigine dialettica. Come per un fiume carsico De Vito fa riemergere la critica profonda a realtà che parevano dimenticate, da quel tempo di secolo nobile, e che, invece, sopravvivono, invisibili, sotto traccia, spaventose come allora.