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Aldo Giovannini-Antonella Giannone-Sergio Poddighe-Il Bramante-Unica-Konrad Hofer

 

Aldo Giovannini-Antonella Giannone-Sergio Poddighe-Il Bramante-Unica-Konrad Hofer

in mostra fino a Febbraio 2025

 

 

Pubblichiamo alcuni stralci di un intervista del 2022 di Maria Carmela Torchi su Il Domani Ibleo. Dopo tre anni di attività alcune cose sono cambiate, nuovi contatti, collaborazioni, produzioni. I punti fondamentali pero’ restano .

Modica, intervista ad Alberto Sipione ideatore di A/telier: luogo di incontro tra artisti e territorio, al quartiere di Via Pizzo

Modica Alta è formata da un insieme di luoghi che la rendono unica, alcuni sono visibili altri nascosti, luoghi che sanno accoglierti e regalarti un’emozione, come quello che abbiamo trovato in Via Pizzo al civico 42.

Suonando al portone di quella che apparentemente sembra un’abitazione privata si viene catapultati all’interno di una galleria d’arte, un luogo anzi un non luogo, come ama definirlo il suo ideatore, dove si creano delle situazioni.

Ad accoglierci Alberto Sipione, siracusano di nascita, modicano d’azione perché come accade a molti quando scopri Modica, e soprattutto la sua parte più vera e autentica, non puoi non innamorartene.

Alberto, che di professione fa l’infermiere, ha voluto così creare l’A/telier, questo il nome del luogo di cui vi stiamo parlando, proprio nel quartiere più vero di Modica Alta, il Pizzo ma anche quello, per certi versi più abbandonato, accogliendo nello spazio, realizzato all’interno dell’androne della sua casa, artisti emergenti del territorio e artisti affermati provenienti da ogni parte del mondo per dare la possibilità a tutti di fruire dell’arte. Una passione la sua affinata nel tempo grazie alla possibilità di conoscere più da vicino questo mondo.

 “Il mio migliore amico di vent’anni è un gallerista di Basilea, con cui negli anni ho collaborato, ed ho avuto modo di guardare come funzionava questo mondo e quindi ho voluto realizzare questo spazio, che non voglio chiamare semplicemente galleria, perché è qualcosa di diverso qui si creano situazioni, e la situazione è qualcosa di spontaneo che si crea senza alcun programma. E questo luogo è ideale per realizzare queste situazioni. Qui mi sono sentito accolto e ho capito che era necessario creare qualcosa lungo questo percorso che dalla Chiesa di San Giovanni porta al Pizzo e che ogni giorno viene attraversato da tanti turisti, ho voluto dare un contributo per animare la strada. Per me è molto importante creare un contatto tra gli artisti, me ed il territorio, la gente che sta fuori, non mi interessano le grandi mostre all’interno di un museo dove non c’è scambio con le persone. Il rapporto tra l’artista e il pubblico è importantissimo e credo fortemente che l’arte debba essere accessibile a tutti. Purtroppo, bisogna inculcare nella gente che acquistare un’opera d’arte è fare un investimento che può essere lasciato in eredità mentre spesso si preferisce acquistare allo stesso prezzo un bene che poi si consuma, come un paio di scarpe o una borsa”……….

 

 

Perché fai tutto questo?

Ti potrei rispondere in modo banale, che bisogna sempre vivere le proprie passioni nella vita. Per la mia vita l’arte, la creatività, fare rete è un tentativo di integrare tutto ciò nella vita quotidiana ma anche per il superamento della vita quotidiana che è dettata da tempo per lavorare, ma anche da tempo libero che in realtà fa parte indirettamente della produzione lavorativa. I programmi del tempo libero valgono per tutti non c’è la possibilità di sviluppare la propria creatività, è difficile. Quindi il mio obiettivo è quello di creare qualcosa di diverso ma in semplicità, senza dover chissà inventare o progettare cosa, con quello che hai a disposizione e soprattutto con il coinvolgimento delle persone che vivono in questo quartiere e che sono le prime a sostenermi, a ringraziarmi per aver realizzato qualcosa di nuovo, che fa rivivere il quartiere, questo per me significa aver centrato l’obiettivo, essere riuscito a rendere l’arte qualcosa accessibile a tutti.”

Lucia Schettino-SCULTURE- Angela Forte-PITTURA-

A𝐧g𝐞l𝐚 𝐅o𝐫t𝐞-𝐏i𝐭t𝐮r𝐚- N𝐄M𝐄S𝐈

𝐋u𝐜i𝐚 𝐒c𝐡e𝐭t𝐢n𝐨-𝐒c𝐮l𝐭u𝐫e- 𝐌E𝐓A𝐌O𝐑F𝐎S𝐈

6 𝐒e𝐭t𝐞m𝐛r𝐞 -18 Ottobre

 

Angela Forte nasce a Noto dove consegue la maturità classica. Dopo gli studi alla Facoltà di Scienze Politiche di Catania, si avvicina all’esperienza artistica frequentando inizialmente l’Accademia di Belle Arti. Nel 1996 frequenta dei corsi di pittura a Pisa e si dedica alla pittura su vetro, alla decorazione pittorica ed elementi d’arredo. Successivamente nella città natia, Noto, dirige un luogo di produzione artistica il “Caffè Artè”, mentre partecipa a diverse collettive d’arte: Milano,
Reggio Calabria, Malta. Ma le sue maschere, i suoi volti dell’anima, la conducono a fondare, con ilregista Giorgio Benelli, la compagnia teatrale “Le cattive  compagnie”. Attualmente vive ed opera a Noto.

 

 

Lucia Schettino, classe 88, nasce a Castellammare di Stabia. Artista multidisciplinare, le cui opere sono state esposte in numerose collettive. Laureata in scultura, presso l’Accademia di belle di Napoli. Successivamente s’iscrive al master triennale in Arti Terapie, presso “Artiterapeutiche di Napoli”. Attualmente vive e lavora a Napoli presso il suo studio Atelier Alifuoco.

“L’istinto, il processo, la trasformazione, sono le parole chiave che da sempre hanno accompagnato la mia ricerca. In questo progetto mi sono focalizzata principalmente sulle evoluzioni emozionali e materiche; emozioni “primordiali” come la paura, il dolore, il piacere, s’ incarnano in una genesi bestiaria, incorporando nelle opere, la natura violenta e animalesca dell’uomo. Una serie di sculture dalle forme antropomorfe in trasformazione; aperte, graffiate, cadenti e in equilibrio instabile, ricreano ed enfatizzano tramite l’utilizzo di materiali industriali e naturali, come gesso, schiuma poliuretanica, legno e cera, l’esperienza psicologica ed emozionale dell’essere umano.”

 

IERATICO – ERETICO Raffaello De Vito-Sergio Poddighe

IERATICO -ERETICO

Sergio Poddighe – Angeli Offesi

            Raffaello De Vito – Nuovi Martiri

2 Agosto / 2 Settembre 2024

 

Ieratico Eretico

di Cristina Napolitano

C’è un momento della nostra esistenza in cui, quando non si conosce, si è eterni, indifferenti;
ma la conoscenza presuppone la temporalità della vita e così per l’uomo inizia la differenza.
Il tempo comincia a scorrere e il suo essere infinito diventa irrisorio; questa è la circostanza nella quale la non eterna umanità si avvia alla sua condanna.
I problemi crescono e noi osserviamo, stanti e quieti, di fronte a genocidi, guerre e atrocità che si palesano ogni giorno, in ogni istante della nostra caduca realtà.
Noi affliggiamo ed essi ci affliggono.
Diventa necessario, quasi obbligatorio, imparare a guardare: “Uno sguardo può essere un atto di empatia o di aggressione. Può provocare desiderio o esprimerlo…guardare fa di noi ciò che siamo (M. Cousins)”; e aggiungerei, guardare ci permette di ragionare!
Avere contezza di ciò che accade intorno a noi ci permette di scovare un tramite attraverso cui esprimere i nostri pensieri; per Raffaello De Vito e Sergio Poddighe quel tramite diventa “Eretico-Ieratico”.
È così che De Vito, tenendo tra le mani il santino di San Gerardo Majella Redentore, riconosce la potenza che una sola immagine può raccontare. Che sia essa tenuta tra le mani sotto forma di santino, nascosta dentro al taschino della giacca o incorniciata in un quadro adagiato su una parete, un’immagine può diventare scenario di infinite storie, attraverso la trasfigurazione di quelle azioni nefaste che invadono la nostra quotidianità. Quello di De Vito diventa un agire eretico nei confronti di chi involontariamente è divenuto martire; martire perché donna, perché migrante, perché diverso. Nei Nuovi Martiri l’artista vede riflessa la stessa potenza espressiva e lo stesso valore simbolico che l’immagine di San Gerardo gli ha trasmesso.

I martiri che egli rappresenta sono vittime, della lotta alle disuguaglianze, della lotta per la libertà di espressione, della schiavitù; sono il motivo per la quale essi divengono protagonisti dei suoi lavori, perché “oggi quello che non vedi non esiste”.
Allo stesso tempo, i mali che tangono l’umanità si insediano anche nell’anima dal momento in cui viviamo. Nelle opere di Poddighe l’essere umano è percepito come puro, angelico; un essere che, come la stessa storia narra, è privo di ogni qualsivoglia peccato (almeno fino alla vita terrena).
Difatti, esistere porta all’ineludibile trasfigurazione della materia umana. Il corpo, un tempo angelico, diventa oggetto di mutilazioni e involucro di un vuoto metaforico che incarna un’anima oramai impura. È presente la necessità di voler rappresentare il dualismo benevolenza-empietà che vige all’apice della nostra conoscenza ed è dal dubbio e dalla sofferenza posti in esame che scopriamo il nostro essere Angeli offesi. Sono raffigurazioni surrealiste, quelle di Poddighe, che sfoggiano al contempo una ieratica compostezza e un dolore fisico struggente che è percepito solamente da chi ha occhi per osservare.
Dinanzi alle opere proposte, dunque, si avrà la percezione di essere coinvolti all’interno di un mondo inteso nella sua visione simbolica, terrena e chiaramente non utopica. Si avrà la possibilità di osservare moltitudini di ingiustizie e sofferenze poste vicendevolmente al centro delle rappresentazioni artistiche di De Vito e Poddighe: lampanti saranno i pensieri che scaturiranno in ogni attento scrutatore.
E dinanzi agli interrogativi che verranno, le opere non saranno altro che punto di partenza per riflessioni che forse non riceveranno mai concretezza.
Mi (vi) chiedo: quanto ancora potremmo essere ciechi di fronte l’evidenza?

 

MOSTRE 2024

L’A/TELIER
NON LUOGO DI SITUAZIONI E CONTEMPORANEITÀ
Associazione ricreativa culturale
 
L’A/telier è situato in una delle stradine principali di Modica Alta, in via Pizzo.
L’Atelier offre uno spazio ad artiste e artisti locali, nazionali e internazionali. Luogo d’incontro di diverse culture e approcci alle espressioni artistiche. Uno spazio privato all’interno di un abitazione che si trasforma in galleria. Non siamo legati a nessuna organizzazione e nessun finanziamento per garantire la nostra assoluta indipendenza. L’arte deve essere libera, in ogni forma e norma, senza restrizioni di società e controllo dall’esterno, rappresentando la forma pura dell’espressione creativa.

“La rapidità dello sviluppo materiale del mondo è aumentata. Esso sta accumulando costantemente sempre più poteri virtuali mentre gli specialisti che governano le società sono costretti, proprio in virtù del loro ruolo di guardiani della passività, a trascurare di farne uso. Questo sviluppo produce nello stesso tempo un’insoddisfazione generalizzata ed un oggettivo pericolo mortale, nessuno dei quali può essere controllato in maniera durevole dai leader specializzati.” (Guy Debord, I Situazionisti e le nuove forme dell’arte e della politica)

Testo di Giovanni Carbone
Le arti non si parlano, non comunicano, si muovono in due direzioni precise, la narcisistica pretesa della propria superiorità l’una sull’altra, si trasformano pure, con protervia efficacissima, in manifestazioni elitarie. Pochissimi poeti ritengono di costruire dialoghi con pittori o scultori, il viceversa vale in misura eguale; rari fotografi immaginano un confronto alla pari con musicisti, e l’opposta direzione si realizza in medesima maniera, inquietante resistenza al confronto. Quando l’assioma della specializzazione ad ogni costo, del narcisismo patologico pare viene meno, è assai comune che finga solo sia così, ché il rapporto artistico non è orizzontale, frutto di dialettica, condivisione, progetto comune, diventa convincimento sacro ed inviolabile che “l’altro” abbia – si merita, meglio – una condizione didascalica, ruolo di insalatina intorno al piatto forte. Dunque, non nasce movimento transartistico, non esiste avanguardia fondata su idem sentire. Il confronto regredisce al nulla, rimane relegato a sacche resistenti ubicate forzosamente nell’oblio del no-social. Di più, l’arte diviene merce, l’artista è mercante che rimuove l’atto creativo per produrre serialità, salvo cambiarne l’identità in funzione del desiderio palesato del consumatore. Critici, gallerie, curatori non s’adeguano semplicemente, divengono artefici del declino, complici – inconsapevoli? – della regola ferrea dell’incomunicabilità, condizione fondante della specializzazione. Più l’osmosi artistica si impoverisce, più la qualità dell’arte regredisce a tratti di mera spazzatura, costruisce per sé la condizione di disperato germoglio su terre aride. Non esiste oggi possibilità alcuna che un Asger Jorn sorseggi vino in una bettola d’i ‘un paese di frontiera con Peggy Guggenheim in dialettica serrata con Debord, i Velvet Underground non vedranno più immagini warholiane sui loro dischi. Nessuno scriverà manifesti per nuove forme d’arte ché questa sarà progressivamente appannaggio di classi sociali che, al contempo, ne detengono il controllo e ne decretano la morte per asfissia da specializzazione. Nemmeno l’arte pare più espressione del tutto d’intorno, punto d’osservazione privilegiato su quello, lo evita anzi, perché se ne pretende, pure quando appare provocatoria ed eretica, una natura rassicurante un tanto al chilo. Questo credo, pure se v’è testimonianza di sacche di resistenza, tentativi di ribaltare lo stato di cose. Ce n’è di tali che portano arte nei non luoghi dell’arte, s’aprono frontiere d’emancipazione e di riscoperta d’umanità dove convenzioni non scritte non ne prevedono, che costruiscono le condizioni proprie della dialettica orizzontale tra le forme espressive, riportano l’arte ad altezza d’ogni individuo, senza pretesa di conoscerne il budget a disposizione. Che se ne parli, che ognuno lo faccia come può e quando può, ne racconti l’esistenza, ne produca l’incontro che si fa anti-rete (virtuale), filo robusto di legame autentico, che sottrae spazio a squallidi mercanti del click, del mega-evento devastatore, della prebenda familistica. L’ho fatto in due occasioni per lo stesso luogo (lo conosco meglio, altre ne intravidi di interesse notevole ma non ne ho dettaglio esiziale).

Faccio tre con L’Altelier di Modica Alta, uno spazio espositivo dove non dovrebbe esserci, semplicemente anticamera d’una abitazione trasformata ad un uso condiviso, per ospitare arte, al centro d’un quartiere che non v’è preposto, popolare e vecchio, intriso di tradizione ma non abbastanza vicino a fasti da cartolina come quello più in basso. Vi si fermano rari turisti, quelli che sono adusi a esplorazioni faticose a percorrenza di vicoli stretti, dedali di stradine e scalinate erte, silenzi profondi, scarpinanti che s’attrezzano allo stupore dell’improvvisa apertura sul presepe di case. È quartiere dove la domenica presto puoi fare colazione con vino e bollito, dove puoi trascorrere serate sotto le scale d’una chiesa sempre con qualcosa da bere che non necessita di mutui a tasso d’usura a conto fatto. Basta mettere tre sedie fuori da quel posto e può fermarsi qualcuno ad occasionale passaggio, alla ricerca del belvedere con paesaggio mozzafiato, centro metri più avanti, che s’appassiona all’esposizione, si mette a discutere con lo sfondo del jazz di Miles o The Goldberg Variations di Bach suonata da Glenn Gould. Ma pure si ferma Peppe, custode pomeridiano della galleria, birra e sigaretta in mano, oppure il vecchio don Angelo, un tempo abilissimo “mastro” di muri a secco, che s’accomoda con libro in mano o grappolo d’uva della sua vigna.
Ed a chiusura dello spazio, le convergenze evolutive, il progetto che pretende trasformazione, prosegue più giù, al fresco dello slargo, a tavola, incontro di sensibilità diverse, anche solo di chi semplicemente si trova attratto da conversazioni altre. È esperienza di sanità mentale, è progetto ricostruttivo, atto di resistenza estrema alla barbarie delle elité che pretendono pure di controllare e di guidare il senso, financo la percezione, della bellezza. Altre esperienze ci sono senz’altro, se cominciano a sentirsi, parteciparsi, creano discontinuità, la potentissima – e terribilmente fragile – società dello spettacolo non se lo può permettere.

UNICA / SYRIA CASTIELLO

UNICA , The second life – Svizzera

Syria Castiello – Italia

1 Giugno 2024 – 15 Luglio

VERNISSAGE 1 Giugno alle ore 19.30

UNICA

UNICA is a contemporary artist. Born in Pune, India with Irish roots, grew up in Switzerland. She expresses herself with needle and thread. The source of her inspiration is the environment, as well as different cultures, but also geometry. Her perspective on art and the creation of art is shaped by the artist Louise Bourgeoise and the Swiss textile artist Lissy Funk.

UNICA è un’artista contemporanea. Nata a Pune, in India, con radici irlandesi, è cresciuta in Svizzera. Si esprime con ago e filo. La sua fonte di ispirazione è l’ambiente, le diverse culture, ma anche la geometria. La sua prospettiva sull’arte e sulla creazione dell’arte è stata plasmata dall’artista Louise Bourgeoise e dall’artista tessile svizzera Lissy Funk.

Riconosciamo nel formalismo l’unico mezzo per sottrarci ad influenze decadenti, psicologiche, espressionistiche. Ci interessa la forma del limone non il limone. Manifesto di “Forma 1”, 15 marzo 1947.

 

 

 

 

 

Syria Castiello

Syria Castiello nasce a Scicli, in provincia di Ragusa, il 18 settembre del 2000. l suoi studi artistici partono al Liceo Artistico di Modica nell’ indirizzo pittura e dal 2019 proseguono, nello stesso indirizzo, all’Accademia di Belle Arti di Bologna. Da qui inizia la sua ricerca espressiva sullo studio del corpo e sulle sue possibili e impossibili torsioni, soffermandosi sulla malattia e sulla maniera in cui quest’ultima agisca sul corpo.

Trattando delle figure sempre meno umane e riconoscibili, dal 2022 si avvicina al mondo dell’incisione attraverso il Biennio di Grafica d’arte e, praticando varie tecniche sperimentali, attraverso una di esse incomincia a sconvolgere totalmente la realtà. Non dedicandosi più unicamente al corpo, dona a tutto ciò che vediamo un’altra forma, volenterosa di mostrarci attraverso i suoi lavori un “altrove” con diversa evoluzione. Da qui le creazioni di surreali ambienti, forme e riproduzioni paesaggistiche, che vanno contro tutto ciò che conosciamo del nostro pianeta.

Attualmente studia e continua la sua ricerca artistica a Bologna, partecipando a varie esposizioni artistiche tra la Sicilia e l Emilia-Romagna.

Annalisa Pascai Saiu

Annalisa Pascai Saiu

Annalisa Pascai Saiu is a poet.
In that literal way, in which nouns in the strict sense derive from verbs. Here, in ours, it is therefore a question of doing. To build. To construct. Explaining an act, making the Logos no longer a chant for exalted soldiers, executed priests, eroticized initiates but a tangible and manifest “place”, architecturally intuited before being erected, habitable without frills.
Jewels and manias are things of the past, of other hands connected first of all, then addressed, finally wise.
And what dictates these lines to me is not the mysterious affection that binds me to her like a snare to the moon (I quote), but that indispensable vertebrate thrill that channels itself to the bones unknown to the physical body when its “artificial” (I invent) it crosses the cornea, pupil, crystalline and vitreous and goes to the retina generating the stimulus that becomes electrical and through the optic nerve it reaches the brain and remains there permanently, to germinate and then blossom upside down, extending clearly up to the heartbeat .
Hit the mark.Affect the things of life and death, triggering the attention mechanism. Annalisa you cannot just look at her, because you have wasted the justice that must be in your left hand.
And so that you can be a vitalized and non-dying subject who observes the thing with opinion: stay there.This I mean: stay there. Accept the invitation that is offered to you, because it is written in rare ink.
Annalisa Pascai Saiu is a poet.
This is the truth.

Amalia de Bernardis

 

Annalisa Pascai Saiu è una poeta.
In quel modo letterale, in cui i nomi in senso stretto derivano dai verbi. Qui, nel nostro, si tratta dunque di fare. Di costruire. Costruire. Spiegare un atto, rendere il Logos non più un canto per soldati esaltati, sacerdoti giustiziati, iniziati erotizzati, ma un “luogo” tangibile e manifesto, architettonicamente intuito prima di essere eretto, abitabile senza fronzoli. Gioielli e manie sono cose del passato, di altre mani connesse prima di tutto, poi indirizzate, infine sapienti.
E a dettarmi queste righe non è il misterioso affetto che mi lega a lei come un laccio alla luna (cito), ma quell’indispensabile brivido vertebrato che si incanala verso le ossa sconosciute al corpo fisico quando il suo “artificiale” (invento) attraversa la cornea, pupilla, cristallino e vitreo e va alla retina generando lo stimolo che diventa elettrico e attraverso il nervo ottico raggiunge il cervello e vi rimane stabilmente, per germogliare e poi sbocciare a testa in giù, estendendosi chiaramente fino al battito cardiaco. Colpire il bersaglio.Colpire le cose della vita e della morte, innescando il meccanismo dell’attenzione. Annalisa non puoi limitarti a guardarla, perché hai sprecato la giustizia che deve essere nella tua mano sinistra. E perché tu possa essere un soggetto vitalizzato e non morente che osserva la cosa con opinione: stai lì.
Questo voglio dire: rimanete lì. Accettate l’invito che vi viene offerto, perché è scritto con un inchiostro raro.
Annalisa Pascai Saiu è una poeta. Questa è la verità.

 

https://www.facebook.com/a.pascaisaiu

https://www.instagram.com/annalized_/

SERGIO PODDIGHE

Sergio Poddighe

 

SERGIO PODDIGHE è nato a Palermo nel 1955. Si è diplomato al Liceo Artistico della sua città e in seguito presso l’Accademia di Belle Arti di Roma (corso di pittura). Ha insegnato Discipline Pittoriche presso il Liceo Artistico Statale, dal 1990 risiede ed opera ad Arezzo. Si è interessato agli aspetti simbolici e psicologici del segno grafico (per questo ha frequentato per un anno l’Istituto di Studi Grafologici di Urbino), come delle espressioni legate al mondo dell’illustrazione, del fumetto e della pubblicità. Ha prestato la sua opera per l’esecuzione di decorazioni, copertine di libri, manifesti legati a spettacoli ed eventi culturali. La sua ricerca pittorica si snoda attraverso percorsi espressivi diversi: dalla grafica, alla sintesi tra manipolazione digitale e pittura propriamente detta. Ha all’attivo numerose personali e partecipazioni a rassegne d’arte contemporanea in Italia e in Europa (Francia, Germania, Belgio, Svizzera, Austria, Romania, Croazia). Ha esposto in rassegne d’arte contemporanee in Usa (New York City, Houston, San Diego, Los Angeles), e al padiglione italiano di Art Basel Miami (edizione 2010); con i reduci di questa rassegna ha partecipato, in seguito, a “ Venti artisti internazionali a Palazzo Borromeo” , Milano. In Florida, inoltre, presso la contea di Walton, ha allestito due personali. Sue opere fanno parte d’innumerevoli collezioni private e pubbliche.

testo di Giovanni Carbone

I lavori di Poddighe sono la rappresentazione del contesto dei desideri umani e dell’uomo stesso come soggetti effimeri, metafora della parzialità dell’essere. L’uomo, dunque, è entità incompleta, mutilata, che rincorre l’effimero come unica vacua speranza compensativa. Riempie i propri vuoti creandone di nuovi, rincorre le proprie ansie costruendone di ulteriori, mai definitivamente consapevole del proprio progressivo allontanamento dalla concreta condizione umana. Proprio sulla condizione umana le opere suggeriscono una riflessione profonda, una riflessione ed un’analisi che possono essere affrontate da più punti di vista, poiché l’accettazione della complessità, quindi delle diverse angolazioni dell’osservazione è l’unico strumento attraverso cui è possibile costruire una prospettiva di ricomposizione dell’essere umano, a partire dalla constatazione della propria progressiva mutilazione.

 

Sergio Poddighe was born in Palermo in 1955, he graduated from the art high school of his city and from the Academy of Fine Arts in Rome (painting course). He taught many years Fine Arts at the Art High School of Arezzo (Tuscany), a city where he has lived and worked since 1990. He was intrigued the symbolic and psychological aspects of the graphic sign (for this reason he attended the Institute of Graphological Studies of Urbino for a year), and looked with interest at expressions related to the world of illustration, comics and advertising. He lent his work for the execution of art decorations, book covers illustration, posters related to shows and cultural events, theatrical sets. He has numerous solo shows and participations in contemporary art exhibitions in : Italy, United States ,France, Belgium, Switzerland, Germany, Austria, Croatia, Romania . His works are part of countless private and public collections.

UNICA / SYRIA CASTIELLO

UNICA , The second life – Svizzera

Syria Castiello – Italia

1 Giugno 2024 – 15 Luglio

VERNISSAGE 1 Giugno alle ore 19.30

UNICA

UNICA is a contemporary artist. Born in Pune, India with Irish roots, grew up in Switzerland. She expresses herself with needle and thread. The source of her inspiration is the environment, as well as different cultures, but also geometry. Her perspective on art and the creation of art is shaped by the artist Louise Bourgeoise and the Swiss textile artist Lissy Funk.

UNICA è un’artista contemporanea. Nata a Pune, in India, con radici irlandesi, è cresciuta in Svizzera. Si esprime con ago e filo. La sua fonte di ispirazione è l’ambiente, le diverse culture, ma anche la geometria. La sua prospettiva sull’arte e sulla creazione dell’arte è stata plasmata dall’artista Louise Bourgeoise e dall’artista tessile svizzera Lissy Funk.

Riconosciamo nel formalismo l’unico mezzo per sottrarci ad influenze decadenti, psicologiche, espressionistiche. Ci interessa la forma del limone non il limone. Manifesto di “Forma 1”, 15 marzo 1947.

 

 

 

 

 

Syria Castiello

Syria Castiello nasce a Scicli, in provincia di Ragusa, il 18 settembre del 2000. l suoi studi artistici partono al Liceo Artistico di Modica nell’ indirizzo pittura e dal 2019 proseguono, nello stesso indirizzo, all’Accademia di Belle Arti di Bologna. Da qui inizia la sua ricerca espressiva sullo studio del corpo e sulle sue possibili e impossibili torsioni, soffermandosi sulla malattia e sulla maniera in cui quest’ultima agisca sul corpo.

Trattando delle figure sempre meno umane e riconoscibili, dal 2022 si avvicina al mondo dell’incisione attraverso il Biennio di Grafica d’arte e, praticando varie tecniche sperimentali, attraverso una di esse incomincia a sconvolgere totalmente la realtà. Non dedicandosi più unicamente al corpo, dona a tutto ciò che vediamo un’altra forma, volenterosa di mostrarci attraverso i suoi lavori un “altrove” con diversa evoluzione. Da qui le creazioni di surreali ambienti, forme e riproduzioni paesaggistiche, che vanno contro tutto ciò che conosciamo del nostro pianeta.

Attualmente studia e continua la sua ricerca artistica a Bologna, partecipando a varie esposizioni artistiche tra la Sicilia e l Emilia-Romagna.

Lucia Schettino

Lucia Schettino

 

Lucia Schettino, classe 88, nasce a Castellammare di Stabia. Artista multidisciplinare, le cui opere sono state esposte in numerose collettive. Laureata in grafica d’arte, presso l’Accademia di belle di Napoli e susseguita la laurea breve, s’iscrive al master triennale in Arti Terapie, presso “Artiterapeutiche di Napoli”. Ha recentemente conseguito il diploma in Scultura presso l’Accademia di Belle Arti di Napoli. È inoltre specializzata in Arti terapie e opera regolarmente in questo campo disciplinare grazie alla realizzazione di laboratori e workshop. Le occasioni espositive che la vedono coinvolta si concentrano in ambito collettivo e territoriale; si segnala la mostra Kemè Project, realizzata nel Macellum / Tempio di Serapide di Pozzuoli, in cui Schettino propone un’installazione in terracotta e ferro dal titolo Visione di un’invasione, concepita appositamente per lo spazio archeologico.Attualmente vive e lavora a Napoli presso il suo studio Atelier Alifuoco.

 

 

Statement

L’istinto, il processo, la trasformazione, sono le parole chiave che da sempre hanno accompagnato la mia ricerca. In questo progetto mi sono focalizzata principalmente sulle evoluzioni emozionali e materiche; emozioni “primordiali” come la paura, il dolore, il piacere, s’incarnano in una genesi bestiaria, incorporando nelle opere, la natura violenta e animalesca dell’uomo. Una serie di sculture dalle forme antropomorfe in trasformazione; aperte, graffiate, cadenti e in equilibrio instabile, ricreano ed enfatizzano tramite l’utilizzo di materiali industriali e naturali, come gesso, schiuma poliuretanica, legno e cera, l’esperienza psicologica ed emozionale dell’essere umano.

 

 
 

L’osso è simbolo di fermezza e virtù. É l’elemento permanente primordiale dell’essere; perciò il nocciolo di immortalità, il luz (mandorla) shih – Li, sono ossa molto dure. La contemplazione dello scheletro da parte degli sciamani è una sorta di ritorno allo stato primordiale attraverso la spoliazione degli elementi deperibili del corpo.

 

 

 

 

https://www.instagram.com/lucia_schettino_studio/

https://www.threads.net/@lucia_schettino_studio

 

OUTSIDER ART

Quattro artisti outsider di tre paesi differenti

Silvia Messerli, Berna – Svizzera

Angelo Modica, Modica – Italia

Malik Mané, Dakar – Senegal

Grazia Ferlanti, Modica Italia

INTERVENTO di Domenico Amoroso
Storico dell’arte, fondatore della sezione Outsider Art del MAC di Caltagirone,
Membro comitato scientifico dell’ Osservatorio Outsider Art ( OOA )
 

22 MARZO 2024 – 15 APRILE

Abbiamo il piacere di aprire la nuova stagione 2024 presso L’A/telier di Modica Alta con una mostra speciale di quattro artisti outsider di tre paesi differenti.

Un viaggio nella dimensione espressiva ed estetica di eccezione che mostra, senza filtri, quei fattori psichici naturali che sono alla base della creazione artistica e ne rivelano l’essenza originaria.
Un tipo di espressione che ha avuto la sua prima classificazione e riconoscimento grazie all’impegno di Jean Dubuffet, famoso pittore e scultore francese della prima metà del Novecento, il quale ha trovato e codificato la definizione di questa forma d’arte affrancata dalla “asphyxiante culture”: Art Brut.

Art Brut che nel 1972 lo storico inglese Roger Cardinal chiamò Outsider Art, nasce da uno spirito creatore, un impulso che non segue modelli, che ignora tecniche e materiali, che dà vita a uno stile personale e a un proprio vocabolario artistico, totalmente al di fuori dal mainstream culturale.

Non solo esposizione ma anche momento di riflessione profonda sui confini dell’arte, sull’essenza della creatività e sull’ambigua e complessa relazione tra l’essere umano e la sua opera.
Un evento interdisciplinare che unisce pittura, oggetti e scultura.

INTERNATIONAL CALL FOR MAIL ART

INTERNATIONAL CALL FOR MAIL ART

BANDO INTERNAZIONALE DI MAIL-ART

Mostra internazionale di Mail Art / Arte Postale

BORDERS / CONFINI

19.04.24  – 19.05.24

 

Vernissage 19.04.24 alle ore 19.30

Jam + Deriva sonora

KIRCHER ELETTRODOMESTICI
Maria Valentina Chirico – Stefano Balice ( Torino )

 

 

FRONTIERE / Borders

Per ognuno, la mail art è un’opportunità per creare arte non commerciale che sfugge ai canali consolidati di mediazione e commercializzazione.
Le cartoline sono composte da fotocopie, ritagli di giornale , francobolli selezionati e inviate a conoscenti. Con la sua mail art, Padhi Frieberger ha diffuso le preoccupazioni dei movimenti ecologisti e pacifisti e ha fatto riferimento a dibattiti politici. Soprattutto, però, polemizzava contro gli “pseudo-artisti “. Come mezzo sociale e politico, la mail art è stata anche un mezzo di resistenza nelle dittature dell’America Latina e dell’Europa orientale. Anche nell’era digitale, la mail art non viene inviata via e-mail. L’arte di piccolo formato è ancora molto popolare e rimane un mezzo analogico.
L’A/telier invita le artiste/i  a inviare le loro opere. Tutte le opere inviate saranno presentate sul sito in modo continuativo e presentate in una esposizione nel 2024.

Mail art, postcard art –

theme BORDERS / Confini

For everyone, mail art is an opportunity to create non-commercial art that escapes the established channels of mediation and commercialisation.
The postcards are made up of photocopies, newspaper clippings, selected stamps and sent to acquaintances. With his mail art, Padhi Frieberger has disseminated the concerns of ecological and pacifist movements and referred to political debates. Above all, however, he polemised against ‘pseudo-artists’.As a social and political medium, mail art was also a means of resistance in the dictatorships of Latin America and Eastern Europe. Even in the digital age, mail art is not sent by e-mail. Small-format art is still very popular and remains an analogue medium.
The A/telier invites artists to send in their works. All submitted works will be presented on the site on an ongoing basis and featured in an exhibition in 2024

Perego / Unica /Giannone /Giovannini/De Vito / Il Bramante/ Poddighe/ Modica /Hofer

Fino al 5 Marzo del 2024 è possibile visitare la mostra collettiva delle artiste e artisti che hanno esposto presso L’A/telier. Saranno inoltre esposte alcune litografie di Giuseppe Santomaso, Yves Laloy e Alan Davie.

Testo di Giovanni Carbone

“La rapidità dello sviluppo materiale del mondo è aumentata. Esso sta accumulando costantemente sempre più poteri virtuali mentre gli specialisti che governano le società sono costretti, proprio in virtù del loro ruolo di guardiani della passività, a trascurare di farne uso. Questo sviluppo produce nello stesso tempo un’insoddisfazione generalizzata ed un oggettivo pericolo mortale, nessuno dei quali può essere controllato in maniera durevole dai leader specializzati.” (Guy Debord, I Situazionisti e le nuove forme dell’arte e della politica)

 

Le arti non si parlano, non comunicano, si muovono in due direzioni precise, la narcisistica pretesa della propria superiorità l’una sull’altra, si trasformano pure, con protervia efficacissima, in manifestazioni elitarie. Pochissimi poeti ritengono di costruire dialoghi con pittori o scultori, il viceversa vale in misura eguale; rari fotografi immaginano un confronto alla pari con musicisti, e l’opposta direzione si realizza in medesima maniera, inquietante resistenza al confronto. Quando l’assioma della specializzazione ad ogni costo, del narcisismo patologico pare viene meno, è assai comune che finga solo sia così, ché il rapporto artistico non è orizzontale, frutto di dialettica, condivisione, progetto comune, diventa convincimento sacro ed inviolabile che “l’altro” abbia – si merita, meglio – una condizione didascalica, ruolo di insalatina intorno al piatto forte. Dunque, non nasce movimento transartistico, non esiste avanguardia fondata su idem sentire. Il confronto regredisce al nulla, rimane relegato a sacche resistenti ubicate forzosamente nell’oblio del no-social. Di più, l’arte diviene merce, l’artista è mercante che rimuove l’atto creativo per produrre serialità, salvo cambiarne l’identità in funzione del desiderio palesato del consumatore. Critici, gallerie, curatori non s’adeguano semplicemente, divengono artefici del declino, complici – inconsapevoli? – della regola ferrea dell’incomunicabilità, condizione fondante della specializzazione. Più l’osmosi artistica si impoverisce, più la qualità dell’arte regredisce a tratti di mera spazzatura, costruisce per sé la condizione di disperato germoglio su terre aride.

UNICA  LUCIANA PEREGO  ANGELO MODICA  SERGIO PODDIGHE  IL BRAMANTE  RAFFAELLO DE VITO  ANTONELLA GIANNONE  ALDO GIOVANNINI

Non esiste oggi possibilità alcuna che un Asger Jorn sorseggi vino in una bettola d’i ‘un paese di frontiera con Peggy Guggenheim in dialettica serrata con Debord, i Velvet Underground non vedranno più immagini warholiane sui loro dischi. Nessuno scriverà manifesti per nuove forme d’arte ché questa sarà progressivamente appannaggio di classi sociali che, al contempo, ne detengono il controllo e ne decretano la morte per asfissia da specializzazione. Nemmeno l’arte pare più espressione del tutto d’intorno, punto d’osservazione privilegiato su quello, lo evita anzi, perché se ne pretende, pure quando appare provocatoria ed eretica, una natura rassicurante un tanto al chilo. Questo credo, pure se v’è testimonianza di sacche di resistenza, tentativi di ribaltare lo stato di cose. Ce n’è di tali che portano arte nei non luoghi dell’arte, s’aprono frontiere d’emancipazione e di riscoperta d’umanità dove convenzioni non scritte non ne prevedono, che costruiscono le condizioni proprie della dialettica orizzontale tra le forme espressive, riportano l’arte ad altezza d’ogni individuo, senza pretesa di conoscerne il budget a disposizione.

Faccio tre con L’Altelier di Modica Alta, uno spazio espositivo dove non dovrebbe esserci, semplicemente anticamera d’una abitazione trasformata ad un uso condiviso, per ospitare arte, al centro d’un quartiere che non v’è preposto, popolare e vecchio, intriso di tradizione ma non abbastanza vicino a fasti da cartolina come quello più in basso. Vi si fermano rari turisti, quelli che sono adusi a esplorazioni faticose a percorrenza di vicoli stretti, dedali di stradine e scalinate erte, silenzi profondi, scarpinanti che s’attrezzano allo stupore dell’improvvisa apertura sul presepe di case. È quartiere dove la domenica presto puoi fare colazione con vino e bollito, dove puoi trascorrere serate sotto le scale d’una chiesa sempre con qualcosa da bere che non necessita di mutui a tasso d’usura a conto fatto. Basta mettere tre sedie fuori da quel posto e può fermarsi qualcuno ad occasionale passaggio, alla ricerca del belvedere con paesaggio mozzafiato, centro metri più avanti, che s’appassiona all’esposizione, si mette a discutere con lo sfondo del jazz di Miles o The Goldberg Variations di Bach suonata da Glenn Gould. Ma pure si ferma Peppe, custode dell’imponente chiesa prossima, birra e sigaretta in mano, oppure il vecchio don Angelo, un tempo abilissimo “mastro” di muri a secco, che s’accomoda con libro in mano o grappolo d’uva della sua vigna.

Ed a chiusura dello spazio, le convergenze evolutive, il progetto che pretende trasformazione, prosegue più giù, al fresco dello slargo, a tavola, incontro di sensibilità diverse, anche solo di chi semplicemente si trova attratto da conversazioni altre. È esperienza di sanità mentale, è progetto ricostruttivo, atto di resistenza estrema alla barbarie delle elité che pretendono pure di controllare e di guidare il senso, financo la percezione, della bellezza. Altre esperienze ci sono senz’altro, se cominciano a sentirsi, parteciparsi, creano discontinuità, la potentissima – e terribilmente fragile – società dello spettacolo non se lo può permettere.

Konrad Hofer

Konrad Hofer

 

Konrad Hofer è nato nel 1928 a Langenau, nell’Emmental.
Fin da piccolo la sua grande passione era la pittura.
Nel 1949 si trasferisce a Basilea.
Nei primi anni della sua carriera ricevette molte borse di studio che gli permisero di dipingere senza doversi dedicare ad altra attività.
Trascorse sempre lunghi periodi in Provenza, dove possedeva una casa per le vacanze; questi paesaggi ebbero una forte influenza sulla sua pittura.
La tecnica pittorica: principalmente a olio, – acrilico e inchiostro, disegni e bassorilievi in legno.
Ha avuto innumerevoli mostre in varie gallerie e grandi commissioni per opere d’arte su edifici (murales, vetrate, mosaici e rilievi in legno o metallo o pietra).
È morto nel 2006 dopo una lunga malattia.

Konrad Hofer wurde 1928 in Langenau im Emmental geboren.
Schon als kleines Kind war seine grosse Leidenschaft das Malen.
1949 zog er nach Basel. Er bekam, in der ersten zeit seiner Tätigkeit, viele Stipendien, die ihm, unteranderem, das Malen, ohne Nebenerwerb, ermöglichten.
Immer wieder längere Aufenthalte in der Provence wo er ein Ferienhaus besass, da diese Landschaften ihn in seiner Malerei stark prägten.
Die Maltechnik: hauptsächlich mit Öl, – Acryl, und Tusche, Zeichnungen und Relief aus Holz entstanden.
Er hatte unzählige Ausstellungen in div. Galerien und grosse Aufträge für Kunst am Bau (Wandbilder, Glasmalerei, Mosaik und Relief aus Holz oder Metal oder Stein)
2006 verstarb er nach längerer Krankheit.

 

Il colore suggerisce la percezione della vita. (O il contrario?)

Konrad Hofer, era nato nel 1928 e cresciuto nella zona rurale di Langenau, nell’Emmental, dove l’ambizione più grande era diventare macchinisti, direttori di banca o piloti. Non per Konrad Hofer. Lui sognava fin da piccolo l’utilizzo del pennello, seguire la linea del disegno per cui intraprese la via dell’arte.
Nel 1949 si trasferì a Basilea, dove trovò il terreno fertile nella cultura degli anni ’60 e ’70 per sviluppare il suo talento. Le tante esposizioni nelle diverse gallerie vissero attraverso le impressioni della sua vita, espresse dai suoi dipinti dai colori terrosi.
Possiamo ancora ammirare i suoi dipinti e rilievi in varie università, edifici bancari e spazi pubblici.
Konrad Hofer apparteneva alla classe popolare, un artigiano, un artista della vita, un uomo libero. Non si è mai asservito al sistema, con un impiego da insegnante come altri suoi colleghi, anche se questo gli avrebbe reso la vita più semplice.

Era un uomo socievole che si sentiva a suo agio nella cerchia degli amici e familiari. Per dipingere però aveva bisogno di calma e solitudine: si sedeva lasciando che il mondo gli scorresse accanto per assorbirne le impressioni con tutti i sensi attivi e trasmettere nella tela le sue visioni.
La Provenza fu fonte inesauribile di ispirazione: paesaggi, dolci colline, mandrie di bovini, formazioni rocciose. I vigneti come personale elisir di lunga vita, argomento di incontri, guida attraverso le stagioni, si manifestavano sulla tela.

Dalle cave portava a casa non solo le immagini figurative, ma anche la sabbia che utilizzava per conferire una sorta di autenticità ai suoi dipinti. Ha collegato terra e cielo con lunghe pennellate orizzontali, con l’uso di matite, mentre per le rocce ha scelto toni acrilici, aspri. Realtà del quotidiano? Certo, ma da buon bernese riflessivo, trascurava il casuale, l’oscuro. Però andava fino in fondo ai fenomeni, dove questi rivelano l’essenziale, l’unico.
In lunghe riflessioni in studio, su più temi, elaborò la capacità significante di un paesaggio, di una cava, di una formazione montuosa.

Il suo quotidiano era piacevolmente rituale, la porta del suo studio sempre aperta, familiare. All’interno il fascino del professionista libero, le prove pittoriche di un lavoro costante e la calda aura di Konrad Hofer persona. È difficile sfuggire a questa formula unica. Riceveva con la stessa cordialità i direttori di banca e gli umili: si trattava di ghiotte occasioni per scegliere una bottiglia di rosso durante le gradite visite in studio e permettere ai visitatori di gettare uno sguardo sulla sua vita dipinta nell’anima.
Il suo miglior marketing era la sua essenza (anche se la parola marketing gli era del tutto estranea!).
I suoi quadri: pieni di densità d’impressioni, un’intera tavolozza di percezioni sensoriali, colori del silenzio che hanno tanto da raccontare, ubriachi di vita. Senza tempo.

 

 

 

Il Bramante

Il Bramante

 

Il Bramante (alias: Marco Noviello 1981), opera ad Albinea dove fonda nel 2010 OOOPStudio assieme ad Alessandro Grisendi creando, a fianco di differenti realtà artistiche a livello internazionale, progetti per il teatro, per la musica, festival e performance.
Dalla scultura al video la connessione che si presenta come sogno.
Il tentativo di suggestione è questo: originando da materie prime e forme essenziali che ricompongo formando altro e assumendo, nella forma del sogno, il desiderio non solo di sembrare, ma di essere qualcosa d’altro, stratificando materie e visioni l’opera muta continuamente il proprio aspetto per mantenersi in una rivoluzione perenne ed eternamente vitale, inestinguibile.
Partendo quindi da materie povere, destinate al macero, utilizzando scarti come base, cerco di dar loro una nuova forma, colore e peso: una materia diversa che cambi continuamente nel tempo e inducendo un ulteriore rivoluzione mescolandole con il video, ricomponendole tra di loro, integrandole tramite la progettazione al contesto in cui son poste. A volte diventano soggetti, a volte sfondi, ma comunque co-protagonisti di una narrazione; trasponendo i soggetti che da scultorei diventano eterei componenti di un sogno, di un viaggio all’interno dell’animo umano. Ed è quindi da questa bramosia di ingannare, stratificando le materie e la fantasia delle visioni che si permette all’opera di poter cambiare ancora di aspetto per mantenerla in una condizione perennemente vitale.
In questo, l’approccio scenografico è ben oltre la frivola decorazione, ma si ricerca un’esperienza visiva e tattile nella quale è bene lasciarsi sprofondare tra le superfici ruvide, nell’alternanza delle forme morbide e pungenti, dove l’incontro con la materia è un incontro primitivo con le proprie sensazioni, primo luogo di conoscenza del mondo. E mentre si fa esperienza dell’opera, come del reale, continua il gioco della rappresentazione.

testo di Silvia Nonaizzi

L’atto del plasmare condensa in sé tutto il lavoro dell’artista in un’opera in cui ancora contano il materico e la materialità, in cui ogni sostanza è impastata fino all’imbroglio della trasformazione di un sogno che assume fattezze tangibili. Partendo dalla materia prima e da forme essenziali, Il Bramante ferma il flusso onirico, ne congela una visione o ne condensa molte trasformando l’astratto inafferrabile in qualcosa di palpabile: è una manipolazione di idee in cui il fare garantisce l’esistenza corporea di un miraggio. La sostanza prende forma e si concretizza tramite la mano dell’artista illusionista che ne altera l’essenza conferendo un nuovo aspetto, inedite e destabilizzanti sembianze.
Il concetto di materia e l’utilizzo che l’artista ne fa sono tutt’altro che irrilevanti: i materiali poveri, scarti destinati al macero, sono la base di partenza a cui le mani daranno nuova forma, colore e peso creando narrazioni. Le superfici ruvide si alternano a morbide curve, dettagli sferzanti creano ombre fendendo la luce.[ materia:
/ma·tè·ria/
sostantivo femminile
Entità provvista di una propria consistenza fisica, dotata di peso e di inerzia, capace di adeguarsi a una forma; concepita di volta in volta come sostrato concreto e differenziato degli oggetti o delle sostanze o come principio considerato passivo nei confronti della “forma” o antagonisticamente contrapposto allo “spirito”. ]Ed è quindi da questa bramosia di ingannare stratificando materia e visione che l’artista mistifica le forme e crea illusioni, concedendo all’opera un mutamento perpetuo che la mantiene in una condizione perennemente vitale. La creazione non è mai definitiva: è completa ma non finita poiché le è ancora concesso di cambiare. Gli effetti del tempo su elementi suscettibili al suo trascorrere operano una rivoluzione incessante e donano vita eterna.[visione:
/vi·ṣió·ne/
sostantivo femminile
1. Percezione degli stimoli luminosi
2. Idea, concetto, quadro.]

Questo avvilupparsi tra materia e sogno trova la propria dimensione nello spazio virtuale che, paradossalmente, rende fattuale l’onirico consacrando la visione tramite il visivo. Il video è documentatore e opera stessa che ritrae i soggetti, le inedite forme, e crea la trama del sogno; non è solo un mezzo che registra, ma un protagonista di questo gioco dell’eternità: dopo il divenire della materia, c’è il movimento e, ovvia conseguenza, l’infinita riproducibilità. Ecco il segreto di vita eterna: fisico e virtuale coesistono continuamente nell’opera del Bramante.

 

 

 

Luciana Perego / Giuseppe Kastano

        Luciana Perego / Giuseppe Kastano

di Giovanni Carbone -Luciana Perego

Modica, Luglio  2023

Luciana Perego

Le cose sono il punto fermo, stabilizzante della vita.
I riti trasformano l’essere-nel-mondo in un essere-a-casa.
Essi, dunque, rendono la vita resistente.

Byung-Chul Han – la scomparsa dei riti

Mi appassiona il tema del vuoto quale dimensione in cui le cose accadono, dove il movimento è possibile. Un luogo di risonanza, capace di stimolare la percezione del sacro; un non-luogo spirituale, abissale, dal quale si tenta la fuga attraverso il consumo; uno spazio, al nostro tempo, necessario all’emersione della singola parola e il suo etimo.

I “contenitori del vuoto” attraverso la forma e l’armonia dei colori, esercitano attrazione sulle emozioni; catturano, per poi trattenere dentro il loro impalpabile contenuto. Giocarci, significa fare spazio alla parola che risuona, quella che vuole essere compresa, mentre il contatto con l’argilla infonde quiete.
La mia produzione è considerevolmente limitata: evito di usare macchine o stampi. Ogni pezzo, creato a lastra, a colombino o con un tornio manuale risponde del momento, dello stato d’animo. Ciò richiede tempo e costringe ad una continua progettazione ma concede un rapporto musicale con la materia, smuove il vissuto, invita a dargli forma e un nome.
Utilizzo l’argilla quale strumento per lavorare con le emozioni: ho messo a punto un particolare modulo di “manipolazione sensoriale”, sapendo che l’argilla, per provenienza dal regno minerale, induce alla quiete e che, per sua natura assorbe e rilascia, favorendo un processo di fioritura

Conosco il fascino dello sperimentare con il fumo e il fuoco, che sono giochi e improvvisazioni tipiche del fare ceramica Raku: essa mi affascina, sorprendente nei risultati cromatici, inattesi, a volte migliori della stessa aspettativa; indomabile nel suo essere materia assorbente esposta all’affumicatura.

Del fare ceramica, penso che non esiste limite alle possibilità. La ceramica è antropologicamente dentro di noi, da sempre accompagna la storia dell’uomo. A lei, spesso mi affido per dare consistenza al mio sentire, sapendo che, come l’acqua, può assumere qualsiasi forma e, in più, la mantiene nel tempo.

 

 

 

 

Golden SpiKe

Di Giovanni Carbone

Giuseppe Kastano è un artista e grafico di Messina, ha trascorso diverso tempo negli ambienti artistici dei Paesi Bassi, poi entra in contatto con le esperienze del teatro povero di Jerzy Grotowski. Osserva con cura le produzioni di Keith Haring, di A.R. Penk e si interessa al lavoro dell’etologo Richard Dawkins cui si ispira per la sua tesi “Prima Memetica Teatrale” con cui si diploma con lode alla Scuola di Scenografia. Trova un catalizzatore formidabile delle sue esperienze di formazione nel trogloditismo ibleo, nell’arte rupestre il cui substrato sono le cave, gli abituri rupestri, i frequenti aggrottamenti dove luci ed ombre si susseguono in un dedalo vertiginoso di immagini e suggestioni.

Le sue riproduzioni hanno l’elevato valore simbolico di un ricongiungimento necessario con la natura, evidente nell’espressione materica delle sue produzioni. Nè si pone limiti nell’utilizzo degli strumenti che veicolano la sua ricerca, fotografia, pittura, installazioni.
Nel suo tratto primordiale non c’è la banalità della riscoperta di radici, una riappropriazione identitaria, queste sono precondizioni che appaiono acquisite, diventano solo quinta scenografica per un viaggio di scoperta nell’essenza dell’intimo primigenio. È arte esplorativa d’una istintualità naturale perduta, ed in questo, dunque, si compenetra la prospettiva di ricerca. Le forme semplici sono rappresentazione organica della realtà nascosta nel gesto naturale, introducono all’archetipo generativo oltre il quale esiste ogni altrove possibile.

I lavori di Kastano recuperano quella prospettiva dimenticata, sepolta nel consueto del moderno, nella folcloristica rappresentazione d’un passato invecchiato su cui edificare un oggi asfittico ed immoto. Dentro quelli che Kastano produce, sono le tracce di ricordi perduti, di spazio senza il tempo, perfetto contraltare al “tutto e subito”, riesumati con procedimenti che paiono di maieutica socratica. Non c’è concessione alla ricerca estetica e formale, ma adesione ad una potente evocazione della realtà interiore in cui ogni dettaglio, ogni figura, diventa la parte per il tutto e che offre lo sguardo ad altri per essere ri-visto, ri-letto, ri-evocato.

Kastano non esplora spazi infiniti ma ne rappresenta l’essenza, non si concede al futuro, ma ne traccia la dimensione esatta, non descrive il passato ma ce lo racconta nelle sue sfumature esiziali. Attraversa il tempo senza muoverlo, riscopre la lentezza del gesto essenziale, non nelle forme della nostalgia di ciò che fu, quasi si volesse ritardare l’incedere inesorabile e minaccioso d’un futuro terrificante.

Ci ricorda che l’Utopia è già in noi pur se spesso non abbiamo occhi, nemmeno ogni altro senso, per coglierla. Nel segno primordiale, nella geometria in apparenza semplice, la denuncia definitiva dell’inconsistenza di quel futuro che è privo di intimo naturale, d’istinto e memoria e che altro non è, per dirla con Nabokov, “l’obsoleto al contrario”.

Antonella Giannone

Antonella Giannone

Antonella Giannone nasce a Modica nel 1990, frequenta prima il Liceo Artistico T.Campailla di Modica e successivamente l’Accademia di Belle Arti di Catania, conseguendo nel 2013 il Diploma Accademico di I livello in pittura e la Specialistica sempre in pittura nel 2016.
L’espressione pittorica dei suoi lavori è frutto di un’attenta introspezione psicologica dei sentimenti, sviluppando una tematica progettuale in divenire.
Nelle sue opere il concetto fondamentale è il contatto con le superfici che diventa generatore di memoria: una sorta di lettura tattile riprodotta attraverso una tecnica personale che le permette la creazione di rilievi e incisioni, trasfigurando e smaterializzando l’immagine, facendo apparire e scomparire immagini di oggetti e di forme note sin dalla nostra infanzia.
Altro ambito di interesse ed applicativo è la didattica dell’Arte, utilizzata per la sua valenza educativo e sociale, nella conduzione di laboratori artistici attivati sia nelle scuole che al Dipartimento di Salute Mentale.
Negli ultimi anni ha insegnato presso l’Accademia di Belle Arti “Mediterranea” di Ragusa.

Sono opere che non fermano l’istante, non lo rendono in narrazioni statiche, precise, permanenti, s’esprimono piuttosto come in una sequenza temporale dinamica. La natura corruttibile delle cose, infatti, ritiene in sé le orme del tempo che si stratificano diacronicamente: così, la traccia più recente non cancella le precedenti, talvolta le opacizza soltanto, sempre e solo per un periodo effimero, salvo poi esaltarle in qualsiasi altro momento, in una qualsiasi altra rilettura. Lo stesso tempo gioca con le cose degli uomini e, graffiando via gli strati superiori deposti al suo passaggio, ne mostra i precedenti nel gioco cromatico della sorpresa che l’opera di Antonella Giannone sa magnificamente disvelare.
La ricerca di Antonella Giannone pare prodursi dentro un percorso inesausto di esplorazione introspettiva, non smette mai di ripartire da qualcosa che, profittando di contributi esatti di memorie precise, di esperienze, si riappropria e ritiene i suoi colori. In questo è assai evidente come l’artista si sottragga agli stereotipi d’immaginari collettivi i cui sguardi distratti hanno reso la memoria in stinti grigi fastidiosi. Pure non partecipa ai formalismi consueti che in forma di presunte operazioni artistiche si fanno folklore. Al contrario crea l’effetto sublime e collaterale della messa a fuoco d’un Io che è fatto di memorie irrinunciabili, invisibili per chi è vittima inconsapevole del gioco d’inganno del tempo, per chi ha scelto la disillusione dell’accelerarsi quale pratica quotidiana, per chi si limita alla loro versione prêt-à-porter. Le atmosfere trasognate e soffuse sono richiamo a più attente esplorazioni, a ricerca mai esausta d’un cammino in cui il tempo interiore pare esprimersi in modo obliquo, non consueto, si fa cornice precisa di tutto e dell’esatto suo contrario, l’apparente nulla delle nebbie, dentro cui v’è l’esplosione d’ogni colore conosciuto.

UNICA

UNICA

testo di Giovanni Carbone

UNICA ( Leonie Adler ) è artista contemporanea, nata a Pune, in India, con radici irlandesi, è cresciuta e vive in Svizzera. La sua anagrafica non è, come appare dalle sue realizzazioni, un dato neutro, un timbro su un passaporto, è elemento pregnante della sua formazione artistica. Infatti, le sue forme geometriche esatte, disegni ad ago e filo, esprimono un’attrazione fatale per l’ambiente, lo interpretano quale contenitore di culture, ella stessa è consapevolmente scrigno di diversità che si uniscono ad ogni passaggio d’ordito. Il contrasto cromatico tra le sue forme ne evidenzia il desiderio di riscoperta, induce alla ricerca d’un viaggio intimo nello spazio e nel tempo attraverso traiettorie spiazzanti, un susseguirsi di cambiamenti repentini di direzione, quasi a voler significare la ricerca precisa del dettaglio, il non volersi precludere nulla che le appartiene, che appartiene al tutto d’intorno.

Ma è anche desiderio di fuga da quotidiani standardizzati e labirintici, il rifiuto di direzioni preconfezionate, della banalità prêt-à-porter. Nonostante la scelta del filo, dell’ago, dunque, Unica non rassomiglia affatto alla più celebre delle tessitrici, non è Penelope, i suoi complessi intrecci non sono trame che si sfilacciano, si scuciono, ma memoria di una direzione precisa ancorché mai scontata, flusso di informazioni che non si esaurisce ma che fa d’ogni passaggio condizione essenziale per l’esistenza del successivo. Rassomiglia ad Arianna, invece, i suoi orditi indicano percorsi salvifici di liberazione, includono la possibilità del ritorno. In quel tornare a casa, alle sue radici, come nelle articolazioni più complesse dell’intimo, non v’è mai ricerca appagante di staticità, d’un passato che invecchiato si trasforma in presente, ma la prospettiva d’un nuovo viaggio, di nuove esperienze che, a paradosso di apparenza d’accumulo, lo rendano ogni volta più leggero, più agile.

Pare che Unica si ricerchi, si ritrovi, infine, nelle sue origini, nelle sue infinite discendenze, e su quelle può contare – paesaggi della memoria d’un vissuto – come intensa scarica emozionale per una nuova ripartenza. In buona parte autodidatta, ha tuttavia assorbito perfettamente le prospettive artistiche di Louise Bourgeoise e dell’artista tessile svizzera Lissy Funk.

È anche membro di GAAL.

 

UNICA ( Leonie Adler ) is a contemporary artist, born in Pune, India, with Irish roots, grew up and lives in Switzerland. His registry is not, as appears from his creations, a neutral data, a stamp on a passport, he is a meaningful element of his artistic training. In fact, its exact geometric shapes, needle and thread designs, express a fatal attraction for the environment, interpret it as a container of cultures, she herself is consciously a casket of diversity that unites with each passage of warp. The chromatic contrast between its forms highlights its desire for rediscovery, leads to the search for an intimate journey through space and time through surprising trajectories, a succession of sudden changes of direction, as if to mean the precise search for detail, not wanting to preclude anything that belongs to it, which belongs to the whole.

But it is also a desire to escape from standardized and labyrinthine newspapers, the refusal of pre-packaged directions, of prêt-à-porter banality. Despite the choice of the thread, the needle, therefore, the only one does not resemble the most famous of the weavers at all, it is not Penelope, its complex weaves are not weaves that fray, they unstitch, but memory of a precise direction even if never taken for granted, a flow of information that does not end but that makes every passage essential condition for the existence of the next. It resembles Ariadne, however, his warps indicate salvific paths of liberation, include the possibility of returning. In that returning home, at its roots, as in the most complex articulations of the intimate, there is never a fulfilling search for static, a past that aged turns into the present, but the prospect of a new journey, new experiences that, paradoxically, make it more agile.

It seems that unique is sought, finally, in its origins, in its infinite descendants, and on those it can count – landscapes of the memory of a lived experience – as an intense emotional discharge for a new restart. In large part self-taught, however, he perfectly absorbed the artistic prospects of Louise Bourgeoise and the Swiss textile artist Lissy Funk. She is also a member of the Gaal Artistic Association.

 

Stefano Meli / Le vibrazioni del viaggio

Le vibrazioni del viaggio

(Allonsanfàn parte ventiduesima: “Live from the Globe” di Stefano Meli)

Gettato sull’erba vergine, in faccia alle strane costellazioni io mi andavo abbandonando tutto ai misteriosi giochi dei loro arabeschi, cullato deliziosamente dai rumori attutiti del bivacco. I miei pensieri fluttuavano: si susseguivano i miei ricordi: che deliziosamente sembravano sommergersi per riapparire a tratti trasumanati in lontananza, come per un’eco profonda e misteriosa, dentro l’infinità maestà della natura…” (Canti Orfici, Dino Campana)

Stefano Meli non pare mai tipo da prove lunghe ed estenuanti, è sempre da buona la prima, che quella è la sola giusta. Le corde della sua chitarra vibrano sempre di viaggio e scoperta, e se i suoni sono quelli che hanno capacità di sollevare la polvere di deserti lontani, a me, pure, mi danno sensazioni di percorrenze di trazzere sperdute a margine d’un altrove che è casa nostra condivisa, come condiviso si fece un fiasco di vino dal sapor di terra e di sale. Vibrano quelle corde, ancora, per un disco nuovo che si fece vivo – ma quando mai non lo fu? – dal vivo, in una serata al Globe di Ragusa. Qualcosa spizzicata qua e là tra le cose sue, roba di Viceversa Records, tutte con quella propensione a lasciare aperta la storia d’un altro viaggio.

 

Viaggio notturno, tra la fioca luce dei lampioni d’una qualche Suburbia, pure attraversamento d’altro, comunque giammai a itinerario fermo, prestabilito, solo corso per vite libere, come altro non può essere. Quest’ultimo lavoro di Stefano questo mi ricorda, scorrimento lento in terra iblea, quando si fa terra d’altrove, concorre con Patagonie e deserti. E quello m’evoca forse solo per nostalgia di luoghi e affratellamenti di cui mai facemmo a meno. Qualche volta bisogna fare rotta altrove, oltre la cittadella presa d’assalto. L’altopiano sulle guide non c’è, lo consente. Ci puoi fare decine di chilometri e non incontrarci nessuno, che presenza umana invece è dappertutto, in dedalo infinito di muri a secco, pietre su pietre strappate alla terra. C’è ancora un altro blues che vibra lì.

Quadrati, rombi, trapezi, cerchi ed ovali, raccontano storie antiche. Antichi abituri che non smisero mai d’essere abitati, che di destinazione d’uso fecero gioco bislacco, financo sepoltura di vassallo d’Eblon divenne chiesa di Bisanzio, tombe si fecero magazzini, ovili, abitazioni di chissà quante genti da mille mila anni per bagaglio d’ampia fantasia a necessità impellente. L’intarsio è roba di ordito intricatissimo, d’eleganza somma, sguardo di vertigine si spinge sinché ce n’è. E poi, d’improvviso dicchi e pieghe della crosta, per irrequietezza di mantelli incandescenti, di sommovimenti terribili, pure strapiombi infiniti, dove le acque gelide di fiumi si fecero e si fanno strada a scavare tane per trote, volpi, ghiandaie e biacchi iridescenti. C’è comanda di suoni giusti tra quei cento anfratti che nascosero velli d’oro e trovature in fondo ad arcobaleni. Tutto si fa ingresso a terra di Lotofagi e smarrisci ogni tema di ritorno. Terra di fiabe, terra d’apparenza sola, che di colori si fece tavolozza densa, e non si curò che di chi ne seppe cogliere l’indispensabilità d’ogni cromatismo. È terra che puoi attraversare come ti pare, ma se c’è una corda giusta che t’accompagna, come filo d’Arianna, è quella che vibra ancora nelle cose di Stefano. E a proposito, il 21 presenta il suo Apache è qui.

 

Stefano Meli presenta il suo CD-Apache presso l’A/telier, giorno 21.05.23 alle ore 18.30 .

Modica Alta,Via Pizzo 42

ANGELO MODICA. LA PIETRA VIVE

  
ANGELO MODICA-LA PIETRA VIVE

di Giovanni Carbone

Modica, Maggio 2023

NdR. La segnalazione ci è giunta da Alberto Sipione, che ha organizzato nel suo spazio espositivo a Modica, ‘L’ATELIER. Non luogo di situazioni e contemporaneità’ (via Pizzo, 42), la prima mostra dell’artista, inaugurata il 24 febbraio 2023. Una vocazione e un esordio tardivo.
Scrive Alberto Sipione: «Nell’estate del 2022 già nelle prime ore del giorno la Via Pizzo a Modica Alta si risvegliava quasi giornalmente con uno scadere
regolare di un ticchettio leggermente metallico. Non era il rumore dei motorini assordanti con le marmitte truccate, ma un lieve suono. Sporgendomi
dal balcone mi accorgevo della presenza di Don Angelo sotto una nuova veste, quella di artista scultore. Con i mezzi a sua disposizione iniziava a scolpire la pietra modicana su un lato della stradina. Questa presenza attirava pure l’interesse di turisti che sorridevano attenzionando il loro sguardo su
questa presenza dai non normali tratti folcloristici. Angelo Modica è un ultra ottantenne, proletario di nascita, che all’età di 80 anni scopre un mezzo
di espressione, la pietra, lo scalpello per produrre opere che si possono definire “prodotto artistico”. Nonostante gli anni e la sua malattia che lo limita nei movimenti ha iniziato una piccola guerra contro le insidie, gli acciacchi ed i limiti della vita che anno dopo anno ci rendono differentemente abili».

 

Segue il testo di Giovanni Carbone.

Angelo Modica la sua città se la porta dentro già nel nome, «un paese a forma di melograna spaccata», diceva Mastro Don Gesualdo Bufalino. Una montagna scavata dai fiumi, e sulle pareti a strapiombo sul fondo valle l’alveare d’antiche sepolture, abituri che, con la pietra di risulta d’ulteriori estrazioni, s’aggettano a diventare case e palazzi, il disegno d’un presepe perfetto. Pure collassano, quelle pietre, sotto i colpi furibondi d’un terremoto, ma rivivono ancora, diventano le fondamenta per il colpo d’occhio che si respira dal Belvedere del Pizzo, quello che domina il paese dalla sua parte alta, dove Angelo è nato 83 anni fa, dov’è sempre vissuto, se si esclude quel certo periodo di tempo trascorso all’estero ad inseguire la promessa per una vita migliore. Quelle pietre Angelo le conosce bene, sono le stesse che affollano i campi, le fertili campagne d’intorno, che assumono forme e dimensioni esatte sotto i colpi di perizia raffinatissima del martello in testa dei “mastri de mura”, si fanno tessere del fitto e vertiginoso mosaico dei muretti a secco. Suo padre questo faceva,“u mastro de’ mura”, e Angelo, nella sua vita in campagna, ne ebbe eredità d’insegnamenti preziosi per costruire quell’arabesco infinito che racconta la storia dell’arte di rendere fertile la terra, della necessità di far ruotare le colture, del maggese, dei recinti per le bestie, protezioni dal vento di Scirocco che spazza l’altopiano nelle giornate più calde, ci ricorda d’un padre che lasciò il suo podere ai figli in parti eguali. Sono le pietre che emersero da fonda-
li marini antichi, che recano con sé la storia che precedette gli uomini, fini
sedimenti carbonatici, gusci invisibili di piccole creature sedimentate a fine
vita, che creano sostrato di destino per gli uomini che sarebbero arrivati.
Le conosce bene Angelo quelle pietre duttili, proprio come le conoscevano
abili scalpellini che ricavarono figure grottesche dalle loro forme imperfette,
quasi a voler sconfiggere la maledizione della terra che trema, esorcizzare con quelle immagini la paura e lo sconforto del perdere tutto, tutto fuorché la pietra. Angelo non le ha mai abbandonate quelle pietre, per
una vita le ha accatastate, a proteggere le radici d’un ulivo, a far spazio a quelle di viti per un vino dal sapore aspro che sa di terra e di sale. Le conosce bene per averle viste prolungarsi e rivivere in forme nuove nei mannaruni, nel dedalo dei muretti, all’ombra d’un carrubo o d’un gelso, per riposarvisi sopra dalla fatica dei campi, con caci giusti, olive, pane di casa ed un grappolo di “racina”. Quando la sua Pinuccia, la compagna d’una vita, se n’è andata e le sue figlie hanno preso strade altre , come si compete ai ragazzi che crescono, Angelo se n’è riappropriato, vi ha inciso sopra la storia delle sue memorie con strumenti semplici, un martello, la punta d’un cacciavite. O forse semplicemente quella storia l’ha tirata fuori da dove era sempre stata, dove era consapevole vi fosse la narrazione d’una vita. Proprio nel solco di quella che un tempo si definiva Art Brut ha raccontato se stesso, la sua vicenda personale, i suoi luoghi, il proprio immaginario nelle forme sorprendenti di essenze, d’alberi, delle cose che ha avuto a fianco in ogni istante del suo quotidiano. Don Angelo Modica supera, nell’essenziale della sua produzione, il paradigma dell’arte contemporanea quale merce, non cerca sfoghi narcististici, approvazione e pubblico, si esprime e basta. Documenta la sua simbiosi con la pietra, con i luoghi dov’è vissuto e vive, la racconta per quello che è, qualcosa che gli appartiene nell’intimo. Non fa gruppo o genere, è solo lui, le sue pietre, le sue memorie, la sensibilità di un uomo che non cerca facili accondiscendenze. Non si concede fronzoli, ha financo quasi un pudore intimo nel parlare delle sue cose, della sua arte, si limita a mostrarle con un sorriso che sa di gratitudine a chi glielo chiede.


L’idea di esporre le sue opere all’A/telier pare sia fatto connaturato alla ricerca di una dimensione dell’arte che non s’adegua ai luoghi canonici che l’immaginario collettivo mercificato ha predisposto. L’Altelier di Modica Alta, del resto, è uno spazio espositivo dove non dovrebbe esserci, semplicemente l’anticamera d’una abitazione trasformata ad un uso condiviso, per ospitare arte, al centro d’un quartiere che non v’è preposto, popolare e vecchio, intriso di tradizione ma non abbastanza vicino a fasti da cartolina come quello più in basso. Vi si fermano rari turisti, quelli che sono adusi a esplorazioni faticose a percorrenza di vicoli stretti, dedali di stradine e scalinate erte ancora scavate nella pietra, silenzi profondi, scarpinanti che s’attrezzano allo stupore dell’improvvisa apertura sul presepe di case. È quartiere dove la domenica presto puoi fare ancora colazione con vino e bollito, come facevano i contadini d’un tempo, dove puoi trascorrere serate sotto le scale d’una chiesa sempre con qualcosa da bere che non necessita di mutui a tasso d’usura a conto fatto. Basta mettere tre sedie fuori da quel posto e può fermarsi qualcuno ad occasionale passaggio, che s’appassiona ad una esposizione di cui non sapeva nulla, e di quella si mette a discutere come si ritrovasse in un luogo già noto, con lo sfondo del jazz di Miles o The Goldberg Variations di Bach suonata da Glenn Gould.
Pure si ferma Peppe, custode dell’imponente chiesa prossima, birra e sigaretta in mano, e sempre il vecchio Don Angelo, l’abilissimo “mastro” di muri a secco, che s’accomoda con libro in mano o grappolo d’uva della sua vigna, perché d’istinto, come tira fuori ghirigori di racconti dalla pietra, Don Angelo sa bene cosa vuol dire Outsider Art, nemmeno intende rinunciare a farne parte.

Articolo pubblicato nel numero 25 dell’ “OSSERVATORIO OUTSIDER ART” numero primavera maggio 2023. ( Qui in formato PDF www.outsiderartsicilia.it/public/download/11781/primavera 2023 n.25_compressed.pdf )

Ringraziamo il presidente Eva Di Stefano per la pubblicazione di questo contributo e consigliamo di seguire la pagina e le attività su questa pagina : www.outsiderartsicilia.it/

L’Osservatorio Outsider Art è dedicato alle forme di arte spontanea, clandestina, irregolare, eccentrica, creata da autori culturalmente, mentalmente o socialmente emarginati, e a tutte quelle espressioni artistiche che si manifestano fuori dai percorsi convenzionali e dai circuiti culturali istituzionalizzati, e che, a livello internazionale, sono state già identificate nel loro aspetto più storicizzato con la nozione di Art Brut e oggi rientrano nella categoria più ampia e dinamica dell’Outsider Art.