Archivio Categoria: mostra

OUTSIDER ART

Quattro artisti outsider di tre paesi differenti

Silvia Messerli, Berna – Svizzera

Angelo Modica, Modica – Italia

Malik Mané, Dakar – Senegal

Grazia Ferlanti, Modica Italia

INTERVENTO di Domenico Amoroso
Storico dell’arte, fondatore della sezione Outsider Art del MAC di Caltagirone,
Membro comitato scientifico dell’ Osservatorio Outsider Art ( OOA )
 

22 MARZO 2024 – 15 APRILE

Abbiamo il piacere di aprire la nuova stagione 2024 presso L’A/telier di Modica Alta con una mostra speciale di quattro artisti outsider di tre paesi differenti.

Un viaggio nella dimensione espressiva ed estetica di eccezione che mostra, senza filtri, quei fattori psichici naturali che sono alla base della creazione artistica e ne rivelano l’essenza originaria.
Un tipo di espressione che ha avuto la sua prima classificazione e riconoscimento grazie all’impegno di Jean Dubuffet, famoso pittore e scultore francese della prima metà del Novecento, il quale ha trovato e codificato la definizione di questa forma d’arte affrancata dalla “asphyxiante culture”: Art Brut.

Art Brut che nel 1972 lo storico inglese Roger Cardinal chiamò Outsider Art, nasce da uno spirito creatore, un impulso che non segue modelli, che ignora tecniche e materiali, che dà vita a uno stile personale e a un proprio vocabolario artistico, totalmente al di fuori dal mainstream culturale.

Non solo esposizione ma anche momento di riflessione profonda sui confini dell’arte, sull’essenza della creatività e sull’ambigua e complessa relazione tra l’essere umano e la sua opera.
Un evento interdisciplinare che unisce pittura, oggetti e scultura.

Perego / Unica /Giannone /Giovannini/De Vito / Il Bramante/ Poddighe/ Modica /Hofer

Fino al 5 Marzo del 2024 è possibile visitare la mostra collettiva delle artiste e artisti che hanno esposto presso L’A/telier. Saranno inoltre esposte alcune litografie di Giuseppe Santomaso, Yves Laloy e Alan Davie.

Testo di Giovanni Carbone

“La rapidità dello sviluppo materiale del mondo è aumentata. Esso sta accumulando costantemente sempre più poteri virtuali mentre gli specialisti che governano le società sono costretti, proprio in virtù del loro ruolo di guardiani della passività, a trascurare di farne uso. Questo sviluppo produce nello stesso tempo un’insoddisfazione generalizzata ed un oggettivo pericolo mortale, nessuno dei quali può essere controllato in maniera durevole dai leader specializzati.” (Guy Debord, I Situazionisti e le nuove forme dell’arte e della politica)

 

Le arti non si parlano, non comunicano, si muovono in due direzioni precise, la narcisistica pretesa della propria superiorità l’una sull’altra, si trasformano pure, con protervia efficacissima, in manifestazioni elitarie. Pochissimi poeti ritengono di costruire dialoghi con pittori o scultori, il viceversa vale in misura eguale; rari fotografi immaginano un confronto alla pari con musicisti, e l’opposta direzione si realizza in medesima maniera, inquietante resistenza al confronto. Quando l’assioma della specializzazione ad ogni costo, del narcisismo patologico pare viene meno, è assai comune che finga solo sia così, ché il rapporto artistico non è orizzontale, frutto di dialettica, condivisione, progetto comune, diventa convincimento sacro ed inviolabile che “l’altro” abbia – si merita, meglio – una condizione didascalica, ruolo di insalatina intorno al piatto forte. Dunque, non nasce movimento transartistico, non esiste avanguardia fondata su idem sentire. Il confronto regredisce al nulla, rimane relegato a sacche resistenti ubicate forzosamente nell’oblio del no-social. Di più, l’arte diviene merce, l’artista è mercante che rimuove l’atto creativo per produrre serialità, salvo cambiarne l’identità in funzione del desiderio palesato del consumatore. Critici, gallerie, curatori non s’adeguano semplicemente, divengono artefici del declino, complici – inconsapevoli? – della regola ferrea dell’incomunicabilità, condizione fondante della specializzazione. Più l’osmosi artistica si impoverisce, più la qualità dell’arte regredisce a tratti di mera spazzatura, costruisce per sé la condizione di disperato germoglio su terre aride.

UNICA  LUCIANA PEREGO  ANGELO MODICA  SERGIO PODDIGHE  IL BRAMANTE  RAFFAELLO DE VITO  ANTONELLA GIANNONE  ALDO GIOVANNINI

Non esiste oggi possibilità alcuna che un Asger Jorn sorseggi vino in una bettola d’i ‘un paese di frontiera con Peggy Guggenheim in dialettica serrata con Debord, i Velvet Underground non vedranno più immagini warholiane sui loro dischi. Nessuno scriverà manifesti per nuove forme d’arte ché questa sarà progressivamente appannaggio di classi sociali che, al contempo, ne detengono il controllo e ne decretano la morte per asfissia da specializzazione. Nemmeno l’arte pare più espressione del tutto d’intorno, punto d’osservazione privilegiato su quello, lo evita anzi, perché se ne pretende, pure quando appare provocatoria ed eretica, una natura rassicurante un tanto al chilo. Questo credo, pure se v’è testimonianza di sacche di resistenza, tentativi di ribaltare lo stato di cose. Ce n’è di tali che portano arte nei non luoghi dell’arte, s’aprono frontiere d’emancipazione e di riscoperta d’umanità dove convenzioni non scritte non ne prevedono, che costruiscono le condizioni proprie della dialettica orizzontale tra le forme espressive, riportano l’arte ad altezza d’ogni individuo, senza pretesa di conoscerne il budget a disposizione.

Faccio tre con L’Altelier di Modica Alta, uno spazio espositivo dove non dovrebbe esserci, semplicemente anticamera d’una abitazione trasformata ad un uso condiviso, per ospitare arte, al centro d’un quartiere che non v’è preposto, popolare e vecchio, intriso di tradizione ma non abbastanza vicino a fasti da cartolina come quello più in basso. Vi si fermano rari turisti, quelli che sono adusi a esplorazioni faticose a percorrenza di vicoli stretti, dedali di stradine e scalinate erte, silenzi profondi, scarpinanti che s’attrezzano allo stupore dell’improvvisa apertura sul presepe di case. È quartiere dove la domenica presto puoi fare colazione con vino e bollito, dove puoi trascorrere serate sotto le scale d’una chiesa sempre con qualcosa da bere che non necessita di mutui a tasso d’usura a conto fatto. Basta mettere tre sedie fuori da quel posto e può fermarsi qualcuno ad occasionale passaggio, alla ricerca del belvedere con paesaggio mozzafiato, centro metri più avanti, che s’appassiona all’esposizione, si mette a discutere con lo sfondo del jazz di Miles o The Goldberg Variations di Bach suonata da Glenn Gould. Ma pure si ferma Peppe, custode dell’imponente chiesa prossima, birra e sigaretta in mano, oppure il vecchio don Angelo, un tempo abilissimo “mastro” di muri a secco, che s’accomoda con libro in mano o grappolo d’uva della sua vigna.

Ed a chiusura dello spazio, le convergenze evolutive, il progetto che pretende trasformazione, prosegue più giù, al fresco dello slargo, a tavola, incontro di sensibilità diverse, anche solo di chi semplicemente si trova attratto da conversazioni altre. È esperienza di sanità mentale, è progetto ricostruttivo, atto di resistenza estrema alla barbarie delle elité che pretendono pure di controllare e di guidare il senso, financo la percezione, della bellezza. Altre esperienze ci sono senz’altro, se cominciano a sentirsi, parteciparsi, creano discontinuità, la potentissima – e terribilmente fragile – società dello spettacolo non se lo può permettere.

Luciana Perego / Giuseppe Kastano

        Luciana Perego / Giuseppe Kastano

di Giovanni Carbone -Luciana Perego

Modica, Luglio  2023

Luciana Perego

Le cose sono il punto fermo, stabilizzante della vita.
I riti trasformano l’essere-nel-mondo in un essere-a-casa.
Essi, dunque, rendono la vita resistente.

Byung-Chul Han – la scomparsa dei riti

Mi appassiona il tema del vuoto quale dimensione in cui le cose accadono, dove il movimento è possibile. Un luogo di risonanza, capace di stimolare la percezione del sacro; un non-luogo spirituale, abissale, dal quale si tenta la fuga attraverso il consumo; uno spazio, al nostro tempo, necessario all’emersione della singola parola e il suo etimo.

I “contenitori del vuoto” attraverso la forma e l’armonia dei colori, esercitano attrazione sulle emozioni; catturano, per poi trattenere dentro il loro impalpabile contenuto. Giocarci, significa fare spazio alla parola che risuona, quella che vuole essere compresa, mentre il contatto con l’argilla infonde quiete.
La mia produzione è considerevolmente limitata: evito di usare macchine o stampi. Ogni pezzo, creato a lastra, a colombino o con un tornio manuale risponde del momento, dello stato d’animo. Ciò richiede tempo e costringe ad una continua progettazione ma concede un rapporto musicale con la materia, smuove il vissuto, invita a dargli forma e un nome.
Utilizzo l’argilla quale strumento per lavorare con le emozioni: ho messo a punto un particolare modulo di “manipolazione sensoriale”, sapendo che l’argilla, per provenienza dal regno minerale, induce alla quiete e che, per sua natura assorbe e rilascia, favorendo un processo di fioritura

Conosco il fascino dello sperimentare con il fumo e il fuoco, che sono giochi e improvvisazioni tipiche del fare ceramica Raku: essa mi affascina, sorprendente nei risultati cromatici, inattesi, a volte migliori della stessa aspettativa; indomabile nel suo essere materia assorbente esposta all’affumicatura.

Del fare ceramica, penso che non esiste limite alle possibilità. La ceramica è antropologicamente dentro di noi, da sempre accompagna la storia dell’uomo. A lei, spesso mi affido per dare consistenza al mio sentire, sapendo che, come l’acqua, può assumere qualsiasi forma e, in più, la mantiene nel tempo.

 

 

 

 

Golden SpiKe

Di Giovanni Carbone

Giuseppe Kastano è un artista e grafico di Messina, ha trascorso diverso tempo negli ambienti artistici dei Paesi Bassi, poi entra in contatto con le esperienze del teatro povero di Jerzy Grotowski. Osserva con cura le produzioni di Keith Haring, di A.R. Penk e si interessa al lavoro dell’etologo Richard Dawkins cui si ispira per la sua tesi “Prima Memetica Teatrale” con cui si diploma con lode alla Scuola di Scenografia. Trova un catalizzatore formidabile delle sue esperienze di formazione nel trogloditismo ibleo, nell’arte rupestre il cui substrato sono le cave, gli abituri rupestri, i frequenti aggrottamenti dove luci ed ombre si susseguono in un dedalo vertiginoso di immagini e suggestioni.

Le sue riproduzioni hanno l’elevato valore simbolico di un ricongiungimento necessario con la natura, evidente nell’espressione materica delle sue produzioni. Nè si pone limiti nell’utilizzo degli strumenti che veicolano la sua ricerca, fotografia, pittura, installazioni.
Nel suo tratto primordiale non c’è la banalità della riscoperta di radici, una riappropriazione identitaria, queste sono precondizioni che appaiono acquisite, diventano solo quinta scenografica per un viaggio di scoperta nell’essenza dell’intimo primigenio. È arte esplorativa d’una istintualità naturale perduta, ed in questo, dunque, si compenetra la prospettiva di ricerca. Le forme semplici sono rappresentazione organica della realtà nascosta nel gesto naturale, introducono all’archetipo generativo oltre il quale esiste ogni altrove possibile.

I lavori di Kastano recuperano quella prospettiva dimenticata, sepolta nel consueto del moderno, nella folcloristica rappresentazione d’un passato invecchiato su cui edificare un oggi asfittico ed immoto. Dentro quelli che Kastano produce, sono le tracce di ricordi perduti, di spazio senza il tempo, perfetto contraltare al “tutto e subito”, riesumati con procedimenti che paiono di maieutica socratica. Non c’è concessione alla ricerca estetica e formale, ma adesione ad una potente evocazione della realtà interiore in cui ogni dettaglio, ogni figura, diventa la parte per il tutto e che offre lo sguardo ad altri per essere ri-visto, ri-letto, ri-evocato.

Kastano non esplora spazi infiniti ma ne rappresenta l’essenza, non si concede al futuro, ma ne traccia la dimensione esatta, non descrive il passato ma ce lo racconta nelle sue sfumature esiziali. Attraversa il tempo senza muoverlo, riscopre la lentezza del gesto essenziale, non nelle forme della nostalgia di ciò che fu, quasi si volesse ritardare l’incedere inesorabile e minaccioso d’un futuro terrificante.

Ci ricorda che l’Utopia è già in noi pur se spesso non abbiamo occhi, nemmeno ogni altro senso, per coglierla. Nel segno primordiale, nella geometria in apparenza semplice, la denuncia definitiva dell’inconsistenza di quel futuro che è privo di intimo naturale, d’istinto e memoria e che altro non è, per dirla con Nabokov, “l’obsoleto al contrario”.

Konrad Hofer / Aldo Giovannini

            Konrad Hofer / Aldo Giovannini

di Giovanni Carbone -Lukas Lavater & Annemarie Monteil

Modica, Aprile 2023

I Colori dello Spirito

Il colore suggerisce la percezione della vita. (O il contrario?)

Konrad Hofer, era nato nel 1928 e cresciuto nella zona rurale di Langenau, nell’Emmental, dove l’ambizione più grande era diventare macchinisti, direttori di banca o piloti. Non per Konrad Hofer. Lui sognava fin da piccolo l’utilizzo del pennello, seguire la linea del disegno per cui intraprese la via dell’arte.
Nel 1949 si trasferì a Basilea, dove trovò il terreno fertile nella cultura degli anni ’60 e ’70 per sviluppare il suo talento. Le tante esposizioni nelle diverse gallerie vissero attraverso le impressioni della sua vita, espresse dai suoi dipinti dai colori terrosi. Possiamo ancora ammirare i suoi dipinti e rilievi in varie università, edifici bancari e spazi pubblici.
Konrad Hofer apparteneva alla classe popolare, un artigiano, un artista della vita, un uomo libero. Non si è mai asservito al sistema, con un impiego da insegnante come altri suoi colleghi, anche se questo gli avrebbe reso la vita più semplice.Era un uomo socievole che si sentiva a suo agio nella cerchia degli amici e familiari. Per dipingere però aveva bisogno di calma e solitudine: si sedeva lasciando che il mondo gli scorresse accanto per assorbirne le impressioni con tutti i sensi attivi e trasmettere nella tela le sue visioni.

La Provenza fu fonte inesauribile di ispirazione: paesaggi, dolci colline, mandrie di bovini, formazioni rocciose. I vigneti come personale elisir di lunga vita, argomento di incontri, guida attraverso le stagioni, si manifestavano sulla tela.

Dalle cave portava a casa non solo le immagini figurative, ma anche la sabbia che utilizzava per conferire una sorta di autenticità ai suoi dipinti. Ha collegato terra e cielo con lunghe pennellate orizzontali, con l’uso di matite, mentre per le rocce ha scelto toni acrilici, aspri. Realtà del quotidiano? Certo, ma da buon bernese riflessivo, trascurava il casuale, l’oscuro. Però andava fino in fondo ai fenomeni, dove questi rivelano l’essenziale, l’unico.
In lunghe riflessioni in studio, su più temi, elaborò la capacità significante di un paesaggio, di una cava, di una formazione montuosa.

Il suo quotidiano era piacevolmente rituale, la porta del suo studio sempre aperta, familiare. All’interno il fascino del professionista libero, le prove pittoriche di un lavoro costante e la calda aura di Konrad Hofer persona. È difficile sfuggire a questa formula unica. Riceveva con la stessa cordialità i direttori di banca e gli umili: si trattava di ghiotte occasioni per scegliere una bottiglia di rosso durante le gradite visite in studio e permettere ai visitatori di gettare uno sguardo sulla sua vita dipinta nell’anima.
Il suo miglior marketing era la sua essenza (anche se la parola marketing gli era del tutto estranea!).
I suoi quadri: pieni di densità d’impressioni, un’intera tavolozza di percezioni sensoriali, colori del silenzio che hanno tanto da raccontare, ubriachi di vita. Senza tempo.

Lukas Lavater & Annemarie Montiel

 

Aldo Giovannini, artista bolognese, classe 1967, fa della sua opera il rifiuto organico del paradigma dell’uomo contemporaneo, rifugge il vissuto di linee ritte, senza gomiti e tornanti, percorse in un tempo inutilmente accelerato. Pare concepire l’idea del quanto meglio s’avverrebbe ad esser tutti lenti, a procedere per partecipato affratellamento con le cose del mondo, fare che si disvelino le prospettive altre di armonie e bellezze, pure quelle interiori che disaffezione all’attenzione autentica seppelliscono nella coltre oscura e densa di immaginari collettivi. La linea ritta è si assai più rapida, ma uguale a se stessa, è itinerario cash & carry, percorso mordi & fuggi. L’itinerario più breve per un altro percorso prestabilito, eterodefinito e rettilineo, dove non v’è gusto d’incontro. I suoi itinerari, invece, sono tracciati come sorpresa d’infinito, fili di ferro che si dispiegano in traiettorie che non appartengono a chi di fretta fece virtù superiore. Preferisce l’indugio della narrazione, la memoria e lo sguardo di chi sa fermarsi e lancia occhio e cuore alla deriva inattesa, senza vincoli al bivio per scelte mai scontate. Il tempo, nell’opera di Aldo Giovannini, non è variabile imprescindibile.

Non s’arrende a che il presente sia l’unica prospettiva temporale concessa, esplora il passato mentre guarda il futuro, elude l’idea d’una libertà negata per prigionia autoinflitta e inconsapevole, per la fila alla cassa, per la direzione mai a linea sghemba. Lascia ad altro la monotonia di strade esatte, ad altro che solo quelle conosce giacché non ambisce a percorsi panoramici, alla lentezza che vede tutto. Ad altro cede volentieri i tempi stretti della velocità di logaritmo, ché non v’è possibilità di scorgere un nuovo dettaglio che si fa racconto nell’accelerazione a parossismo. Lui non spera nella stazione celata dal muro, in benedizione d’assoluzione, nel conforto delle sacre stanze di corruzione. Si dissocia dal mondo che non concepisce resa, non la prevede, si fa, invece e per diserzione, isola ch’è sorta dal mare e nessuno vede, di cui l’uno qualunque non conosce esistenza nemmanco a binocolo o telescopio portentoso, poiché occhi non ha, neanche prospettiva di deriva e approdo.

Conforta nella sua visione d’artista l’addivenire a conclusione che «il mondo abitato dall’uomo moderno è ormai denso, saturo, di immagini e suoni… si accavallano tra loro, entrano dentro di noi e non ci danno il tempo di metabolizzare ciò che si portano con sé. La dimensione temporale si è compressa impedendoci di trovare una “risposta”. Siamo portati a divenire soggetti passivi, spettatori di una quantità impressionante di sollecitazioni. Fermare il tempo o almeno rallentarlo … porci davanti alla nostra interiorità al suo rapporto con il passato, anche remoto … si può fare, è necessario, per me almeno. Attraverso le mie mani, che si fanno strada tra i meandri dell’esistente, nell’alterità, nelle visioni della psiche, nella sua memoria, nei desideri, nei suoi sogni, io finalmente compio il mio atto taumaturgico. Divento parte del tutto, mi riconnetto con la parte più viva di me, con la parte più autentica e traccio un ponte verso il sentiero dell’irrazionale, del simbolico, archetipico, che mi appartiene, che ci appartiene e possiamo riconoscerlo. Basta avere il tempo di guardarla in fondo agli occhi. Un filo di ferro è medium perfetto che abbraccia il vuoto, traccia percorsi nella mutevolezza del divenire crea un approdo che accolga ciò che è nascosto dentro di noi.»

Giovanni Carbone

Antonella Giannone / Il Bramante

                ANTONELLA GIANNONE / IL BRAMANTE

di Giovanni Carbone e Silvia Nonaizzi
Modica, Febbraio 2022

Antonella Giannone è artista che a dispetto della sua giovane età pare assai consapevole della sua ricerca espressiva. Le sue opere regalano la piacevolissima sensazione che i colori non siano stati semplicemente “depositati” – ancorché con tecnica raffinata – su un supporto, ma che invece si siano fatti spazio attraverso antiche sovrapposizioni, immagini d’infanzia, memorie vissute, tal altre raccontate. La bidimensionalità del piano svanisce in rilievi tattili, profondità materiche, presenti; immagini spariscono, riappaiono come un fiume carsico in forme e determinazioni nuove, quali concrezioni identitarie. Memoria e prospettiva convivono in un unicum narrativo fatto di dettagli sfumati, non semplici richiami nostalgici o cristallizzazioni del presente, nemmeno si accomodano in visioni taumatugiche o – com’è assai più consueto – spaventate del futuro, rappresentano nella loro complessità/unitarietà una precisa consapevolezza interiore.

Sono opere che non fermano l’istante, non lo rendono in narrazioni statiche, precise, permanenti, s’esprimono piuttosto come in una sequenza temporale dinamica. La natura corruttibile delle cose, infatti, ritiene in sé le orme del tempo che si stratificano diacronicamente: così, la traccia più recente non cancella le precedenti, talvolta le opacizza soltanto, sempre e solo per un periodo effimero, salvo poi esaltarle in qualsiasi altro momento, in una qualsiasi altra rilettura. Lo stesso tempo gioca con le cose degli uomini e, graffiando via gli strati superiori deposti al suo passaggio, ne mostra i precedenti nel gioco cromatico della sorpresa che l’opera di Antonella Giannone sa magnificamente disvelare.

Antonella Giannone vive e lavora a Modica dove ha iniziato i suoi studi artistici al Liceo Artistico Tommaso Campailla. Consegue il diploma accademico di II livello in pittura nel 2016, presso l’Accademia di Belle Arti di Catania. Mantiene costanti, la ricerca, lo studio e l’attività pittorica, partecipando a mostre collettive e personali. Si occupa di didattica dell’Arte, utilizzata per la sua valenza educativa e sociale, nella conduzione di laboratori artistici attivati sia nelle scuole che al Dipartimento di Salute Mentale. Negli ultimi anni ha insegnato presso l’Accademia di Belle Arti “Mediterranea” di Ragusa.

Giovanni Carbone

Il Bramante – Dalla scultura al video: la connessione che si presenta come sogno.
L’atto del plasmare condensa in sé tutto il lavoro dell’artista in un’opera in cui ancora contano il materico e la materialità, in cui ogni sostanza è impastata fino all’imbroglio della trasformazione di un sogno che assume fattezze tangibili. Partendo dalla materia prima e da forme essenziali, Il Bramante ferma il flusso onirico, ne congela una visione o ne condensa molte trasformando l’astratto inafferrabile in qualcosa di palpabile: è una manipolazione di idee in cui il fare garantisce l’esistenza corporea di un miraggio. La sostanza prende forma e si concretizza tramite la mano dell’artista illusionista che ne altera l’essenza conferendo un nuovo aspetto, inedite e destabilizzanti sembianze.
Il concetto di materia e l’utilizzo che l’artista ne fa sono tutt’altro che irrilevanti: i materiali poveri, scarti destinati al macero, sono la base di partenza a cui le mani daranno nuova forma, colore e peso creando narrazioni. Le superfici ruvide si alternano a morbide curve, dettagli sferzanti creano ombre fendendo la luce.
[ materia:
/ma·tè·ria/
sostantivo femminile
Entità provvista di una propria consistenza fisica, dotata di peso e di inerzia, capace di adeguarsi a una forma; concepita di volta in volta come sostrato concreto e differenziato degli oggetti o delle sostanze o come principio considerato passivo nei confronti della “forma” o antagonisticamente contrapposto allo “spirito”.

Ed è quindi da questa bramosia di ingannare stratificando materia e visione che l’artista mistifica le forme e crea illusioni, concedendo all’opera un mutamento perpetuo che la mantiene in una condizione perennemente vitale. La creazione non è mai definitiva: è completa ma non finita poiché le è ancora concesso di cambiare. Gli effetti del tempo su elementi suscettibili al suo trascorrere operano una rivoluzione incessante e donano vita eterna.
[visione:
/vi·ṣió·ne/
sostantivo femminile
1. Percezione degli stimoli luminosi
2. Idea, concetto, quadro.]

Questo avvilupparsi tra materia e sogno trova la propria dimensione nello spazio virtuale che, paradossalmente, rende fattuale l’onirico consacrando la visione tramite il visivo. Il video è documentatore e opera stessa che ritrae i soggetti, le inedite forme, e crea la trama del sogno; non è solo un mezzo che registra, ma un protagonista di questo gioco dell’eternità: dopo il divenire della materia, c’è il movimento e, ovvia conseguenza, l’infinita riproducibilità. Ecco il segreto di vita eterna: fisico e virtuale coesistono continuamente nell’opera del Bramante.

Silvia Nonaizzi

Visioni Loco(emotive)-Poddighe/Monteleone

Visioni Loco(e)motive

Poddighe/Monteleone

di Giovanni Carbone
Modica, Febbraio 2022

La sua opera è preziosa poiché non si limita ad esporsi, invita al convivio, come le sue mostre, dove è quinta condivisa di pomodori e caci, olive, uova sode e pani caldi, manco a dirlo, vini pista e ammutta che incendiano le budella col gusto della terra bruciata dal sole. Le note di Schifano ci sono tutte, inseguite dai suoi studi fiorentini, messaggi di avanguardie isolane ed approdi per ogni continente. Colori precisi e tratti sfumati, contorni nitidi e ombre fuggenti, nel tutto che si disincrosta dell’eccesso sino a renderci l’essenza del pensiero più autentico, sono la sintesi dell’oggetto che amplifica la nostalgia per le forme esatte. Quadri che fanno suoni, melodie di motori sbuffanti, scalpiccio di zoccoli e fruscii di piume, ma pure odori forti, commenti soffusi. risa giuste. Il suo lavoro di anni, le sue opere, sono barricate altissime che provano a reggere a difesa degli ultimi presidi d’umanità.
I lavori di Poddighe, invece, hanno più l’apparenza di desolata contemplazione del tramonto dell’uomo, sono la rappresentazione esatta della disumanizzante mercificazione dei suoi sogni.

Non è cosa semplice, mai, far dialogare artisti diversi, ma capita che, al di là di manifeste distanze stilistiche, essi possano esprimere insospettabili convergenze. Ignazio Monteleone e Sergio Poddighe sono, a primo acchito, talmente lontani da non immaginare come le loro opere possano prodursi in un comune percorso narrativo.

Pare abbiano in comune al massimo taluni cenni biografici: sono entrambi siciliani, intanto, e questo non è dato che si possa trascurare, pure se l’uno, Monteleone, nella classicissima categorizzazione degli isolani dello storico direttore dell’Ora Nisticò, è siciliano di scoglio, tenacemente abbarbicato alla sua terra, in un bilico costante che oscilla tra Modica e Palazzo Adriano. L’altro, Poddighe, palermitano di nascita, è più siciliano di mare, ché non si fece scrupolo a lasciare che fossero soltanto furibonde nostalgie e brevissime incursioni a garantirgli il legame con l’isola. Entrambi si sono formati nel mondo delle accademie, quella di Firenze per Monteleone, Poddighe ha invece frequentato Roma. I trascorsi di studio attento sono evidentissimi in perizie tecniche raffinate, evolute in decenni di pratica. Hanno insegnato discipline pittoriche nei licei artistici prima di farsi pensionati praticamente in simultanea.
Dal punto di vista stilistico sono praticamente antipodici. Monteleone appare scanzonato, i suoi soggetti sono ombre che si muovono su tappeti di colore, non è tipo che s’arrende alle cupezza del tutto d’intorno. È, dunque, pittore resistente, già dai tempi in cui non ci s’avvedeva che c’era di che farsi partigiano, piuttosto s’anelava assuefazione. Nel suo atelier-abitazione, un vecchio magazzino riattato all’uopo, si respira storia, si legge sulle pareti un lunghissimo percorso artistico. Si sente il vociare felicemente scomposto dei suoi allievi, cui cerca ancora di tirar fuori estri creativi oltre il tempo scuola. Perché la sua non era la scuola d’un paradigma aristotelico, piuttosto Stoa, caparbia voglia di scoprire i talenti nelle dita e negli occhi dei suoi ragazzi.
Come faceva il Maestro Manzi quando insegnava a leggere e scrivere a milioni di italiani, lui smantella sovrastrutture per liberare la creazione d’un linguaggio nuovo, non soggetto ai valutatoi prescrittivi del contemporaneo. I suoi lavori aderiscono alla ricerca incessante della bellezza attraverso un tratto apparentemente ingenuo, mossa efficace e spiazzante contro la sproporzione delle forze in campo. Corvi e Vele e il giallo (“ch’è colore bastardo”), il suo Don Chisciotte, le sette palme che danzano, i treni a vapore oscillano tra nostalgie e gioco autentico. Ignazio, che è figlio di ferroviere, come lo furono Quasimodo e Vittorini dalle stesse parti, sa cosa c’è da aspettarsi ad ogni stazione, ad ogni fermata, i fazzoletti levati al cielo, umidi di lacrime e colorati di rossetti, fasci di palme stesi ad asciugare per una domenica di festa.

I desideri umani perdono completamente il carattere di processo decisionale autonomo, sono eterodiretti, rappresentano adesione incondizionata ed acritica ad un unico modello prescrittivo. L’uomo stesso appare come entità devitalizzata, relegata alla parzialità dell’essere, dunque, incompleta, mutilata, che rincorre l’effimero come unica vacua speranza compensativa. Riempie i propri vuoti creandone di nuovi, rincorre le proprie ansie costruendone di ulteriori, mai definitivamente consapevole del proprio progressivo svuotamento. Con l’avvento del capitalismo, l’uomo cede dapprima una quota parte del suo tempo al lavoro alienato, allo sfruttamento, al giogo produttivo, poi rinuncia a ciò che resta del suo vissuto per destinarlo al consumo, quindi, esaurito pure quel tempo, diviene esso stesso merce. E l’uomo-merce è ridotto a mera immagine, si autoriproduce in forme standardizzate e seriali, non ritiene alcuna identità, è solo un piccolo ingranaggio della gigantesca macchina della massificazione produttiva. Il suo è un richiamo alla società dello spettacolo che annichilisce i singoli, li relega a monomeri costitutivi d’un tutto conforme in cui essere e apparire coincidono. I selfie in sequenza compulsiva dei social ne paiono la rappresentazione più eloquente. Eppure, in ogni passaggio, anche il più crudo della sua produzione artistica, Poddighe non rinuncia mai all’ironia, non smette di prendere in giro i tempi grami delle sue rappresentazioni, gioca persino con questi come con se stesso. Riesce ad alleggerire il carico pesante della frustrazione. Definisce persino una via di fuga dal contingente, per altri aspetti disegna una prospettiva politica, poiché recupera il senso etimologicamente più puro del termine, quello che deriva dalla Polis greca, sottinteso di impegno e partecipazione. Egli partecipa, infatti, lo fa con competenza da intellettuale, poiché si interroga sui processi. Anche se nelle sue opere permane la percezione di un fatalismo quasi disperato, è proprio quella sottile ironia, quel saper raffigurare con linguaggio schietto l’esistente, che ha insito il superamento dell’alienazione.

Da un punto di vista tecnico spinge al limite il rapporto tra produzione digitale e pittura classica, attraversa in modo personalissimo i segni d’un surrealismo operativo e concreto, in cui il dettaglio non è orpello estetico, diviene, piuttosto, elemento narrativo che manifesta il complexus delle relazioni uomo-oggetto, ne eviscera la perversione.
I due si interrogano sulla follia, lo fanno con consapevolezza piena, superando i paradigmi consueti. Metterli a confronto non è impresa così temeraria, giacché la loro narrazione, mentre si concentra su differenti punti d’osservazione, costruisce un mosaico esatto in cui ogni tessera è un’opera, ciascuna complemento d’un’altra. Si confrontano col significato di follia a partire dal suo presunto opposto, la percezione della “norma”, della “moda”. Monteleone usa, per questo, l’archetipo illustrativo del pazzo, la sua accezione più pura, persino letteraria, scovata nelle parole di Cervantes. I suoi Don Chisciotte appaiono sfumati ed indefiniti, ombre e basta, con lo sfondo di profondità senza tempo, senza spazio. Ombre e basta, perché questa è nell’immaginario collettivo la pazzia, solo l’ombra cui non volgere lo sguardo. È deviazione standard da comportamenti normali, quelli che tengono i più, che accettano codifiche, quali che siano consegne e conseguenze. Il pazzo, il dago, il reietto, il miserabile, meglio non guardarlo, non vederlo, lasciarlo nell’oscurità d’una improbabile indeterminatezza, con lo sfondo colorato e rutilante della “moda” (concetto statistico.matematico, come da definizione “la moda (o norma) di una distribuzione di frequenza X è la modalità (o la classe di modalità) caratterizzata dalla massima frequenza. In altre parole, è il valore che compare più frequentemente). Eppure quella divergenza dal normale esprime bagagli smarriti d’umanità che parole ed immagini riarticolano in pensieri complessi, perché la grammatica della follia è apertura d’orizzonte, ricerca d’utopie, di sogni realizzati. Don Chisciotte partecipa ai destini umani, alla sua immanente schiavitù dell’apparire, alla sua privazione della libertà d’essere, è, in definitiva, l’uomo compiuto.

A quella schiavitù rivolge lo sguardo Poddighe, I suoi sono soggetti perfetti, esteticamente collocati nel cliché della normalità. Soggetti privi di pensiero divergente, dunque incapaci di concepirne uno critico e complesso oltre quello dello stereotipo. Non accettano d’inserirsi nella dialettica sociale in forme conflittuali e partecipative, sono corpi prêt-à-porter, adesioni perfette a modelli preconfezionati, la fantasia al potere è abolita.
Ma l’adesione al cash & carry del quotidiano ha necessità di vittime sacrificali, non accetta gratuità, pretende amputazioni d’umanità, metaforicamente rese negli smembramenti dei corpi.
La dialettica della follia si compone nel dialogo tra i due punti di vista, ne rende efficace la narrazione, va oltre la “norma”, si fa strada nel dubbio. La concezione atavica del “pazzo” si estende, finisce col riguardare il visionario, quello che supera la cortina di fumo dell’apparenza. I due, dunque, propongono una versione alternativa della narrazione consueta, e il “pazzo”, a costo d’essere “espulso” dalla conformità, non rinuncia alla completezza dell’essere umano poiché nella sua natura c’è lo sguardo verso l’oltre, non s’arrende all’ovvio. Rinunciare alla visione altra, produce la follia non dichiarata della convenzione, denuncia d’omologazione sino al definitivo annullamento del singolo, derubricato a numero, ad oggetto.

Oltre la natura umana l’oggetto per Monteleone diventa esperienza trasognata, le sue locomotive ad esempio, prendono vita da segni essenziali, un ritorno ad una dimensione fanciullesca. L’artista guarda i suoi treni come un mondo perduto, li interpreta con divertita nostalgia. Poddighe, invece, studia l’evoluzione dell’uomo al cospetto di quegli oggetti, il processo di progressivo compenetrarsi reciproco, il primo che diviene macchina, ingranaggio asettico e disanimato, il secondo che acquista centralità, che appare dominante.
Questo dialogo a distanza tra due concezioni diverse dell’arte, convergenti nei temi dirimenti dell’oggi, diverrà materiale e tangibile in mostra a Modica, già agli inizi del prossimo anno, a cura dei ragazzi di Immagina (“Dialettica della follia”) e dello spazio L’A/telier (“Visioni loco(e)motive”). Sarà occasione concreta per un andar oltre.

TEXTIL ART + SCULTURE

TEXTIL ART + SCULTURE

SETTEMBRE – OTTOBRE 2022

di Unica e Pamela Vindigni

Unica e Pamela Vindigni, in mostra dal 24 settembre allo spazio L’Altelier di Modica Alta, paiono artiste diverse, hanno storie e linguaggi differenti, biografie ed origini lontane, eppure, attraverso le loro opere, concepiscono un dialogo di convergenze, sorprendentemente affine.

Usano la materia in modo personale, riconoscibilissimo, la plasmano per consentirsi una profonda esplorazione d’un universo di genere – quello femminile – ce lo rendono, entrambe, in una prospettiva liberata. Partono, dunque, da sponde antipodiche, approdano insieme, al di là delle costrizioni dell’apparire, del metodo, compiono lo stesso viaggio di ri-scoperta.

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TEXTIL ART

di Unica

L’artista

SCULTURE

di Pamela Vindigni

L’artista

NERO PINOCCHIO

NERO PINOCCHIO

LUGLIO – SETTEMBRE 2022

di Raffaello De Vito

La schietta e nitida visione del romanzo di Collodi ne sostiene la polimorfica struttura che da sempre offre lo spunto a molteplici interpretazioni, qui in maniera volutamente frammentaria, a porzioni, quasi dispensando si vuole portare davanti all’occhio dello spettatore il carattere più cupo del racconto, il suo substrato gotico, aspetti che nell’immaginario collettivo, anche grazie a letture edulcorate come quella di Disney, tendono generalmente a smarrirsi.

Quella che può sembrare una sfumatura letteraria è invece ora innegabilmente la realtà del nostro mondo quotidiano: Pinocchio raggirato, incatenato, sfruttato, accoltellato, impiccato, ingiustamente imprigionato vive la similare condizione dei migranti in arrivo nel “bel paese dei balocchi”.

La nostra fiaba, così come le vicende di sopraffazione e violenza che troppo spesso accompagnano l’integrazione dei migranti di ogni terra, in ogni epoca, sono la chiave di lettura di questo frammento di “Nero Pinocchio”.

Raffaello De Vito

The blunt and sharp vision of the novel by Collodi supports the polymorphic structure that has always provided the key to multiple interpretations. In a deliberately patchy fashion, almost in parceled-out allotments, the goal is to show the reader the gloomiest nature of the story and its underlying Gothic vision; these are aspects that in the collective fictitious world, thanks to sugarcoated readings such as Disney’s, tend to get lost.

What may seem like a literary nuance is the undeniable reality of our everyday world: Pinocchio conned, chained, exploited, stabbed, hung, arrested, and unjustly imprisoned, embodies a similar situation to that of the migrants arriving in the „beautiful land of toys.“

Our fairy tale, as well as the stories of abuse and violence that too often go along with the amalgamation of migrants from every land and every era, are the key to the reading of this section of “Black Pinocchio.”

Raffaello De Vito

Die ehrliche und ungetrübte Lektüre von Pinocchio setzt am polymorphen Aufbau des Romans von Collodi an, der schon seit seiner Entstehung zur vieldeutigen Interpretation einlud, die sich hier gewollt fragmentarisch darstellt, fast als wolle man sie dem Betrachter in Portionen servieren, um ihm die düstersten Aspekte, deren gotisches Substrat, vor Augen zu führen.

Das heißt genau die Seiten, die – dank der Verniedlichung durch Disney und ähnlichen Versionen – dazu tendieren, dem kollektiven Bewusstsein abhanden zu kommen. Aus dem, was manchem eine literarische Feinheit zu sein scheint, wurde heute unleugbar eine Realität des alltäglichen Lebens.

Pinocchio, der betrogen, in Ketten gelegt, ausgebeutet, erdolcht, gehenkt verhaftet und ungerechterweise eingekerkert wird, macht Ähnliches durch wie die Migranten aller Herren Länder und aller Zeit, dies ist der Interpretationsschlüssel, um unsere fragmentarische Darstellung des “Nero Pinocchio” zu erschließen.

Raffaello De Vito

L’artista

RECENSIONI

Nero Pinocchio (Allonsanfàn parte quattordicesima: Raffaello De Vito)

di Giovanni Carbone

Le atrocità sollevano unindignazione minore, quanto più le vittime sono dissimili dai normali lettori, quanto più sono more”, sudice”, dago. Questo fatto illumina le atrocità non meno che le reazioni degli spettatori. (…) Laffermazione ricorrente che i selvaggi, i negri, i giapponesi, somigliano ad animali, o a scimmie, contiene già la chiave del pogrom. Della cui possibilità si decide nellistante in cui locchio di un animale ferito a morte colpisce luomo. Lostinazione con cui egli devia da sé quello sguardo – “non è che un animale” – si ripete incessantemente nelle crudeltà commesse sugli uomini, in cui gli esecutori devono sempre di nuovo confermare a se stessi il non è che un animale”, a cui non riuscivano a credere neppure nel caso dellanimale. Nella società repressiva il concetto stesso delluomo è la parodia delluguaglianza di tutto ciò che è fatto ad immagine di Dio. Fa parte del meccanismo della proiezione morbosa” che i detentori del potere avvertano come uomo solo la propria immagine, anziché riflettere lumano proprio come il diverso”. (Theodor Adorno)

Raffaello De Vito è fotografo raffinato, dotato di grande tecnica, padronanza degli strumenti. Ma non ne fa uso consueto, non ricerca perfezione d’immagini e basta, studia, concepisce, elabora narrazioni complesse. Il suo Nero Pinocchio”, in mostra prima a Basilea, poi all’Altelier di Modica Alta (Luglio-Settembre 2022), è il recupero della vicenda del burattino secondo una rilettura analitica e controcorrente – o forse spietatamente corretta – delle pagine Collodi, attraverso il filtro efficacissimo della sua trasposizione televisiva di Comencini.

Il burattino di De Vito si riappropria di atmosfere gotiche, minimaliste, sopite allo sguardo da trascorsi rassicuranti e consueti, come nelle illustrazioni “educative” del Dorè, o filmiche, manichee, edulcorate delle animazioni disneyane. Denuncia l’inadeguatezza di quelle rappresentazioni, disdegna con sguardo arguto l’idea del burattino che diviene finalmente bimbo in carne ed ossa solo dopo un percorso di crescita di consapevolezze cash & carry.

De Vito centra la quinta scenografica della vicenda nell’estremo miserabile del mondo degli ultimi, ma non ne fa riproposizione compassionevole, pietistica. Ne disvela piuttosto l’essenza materiale, non indugia in infingimenti, nemmeno produce moralismi.

Il suo Pinocchio, come quello di Comencini, attraversa l’orrore della violenza (le torture di Abu Ghraib, la grottesca umiliazione dei prigionieri chiusi in sai pinocchieschi, appunto), è vittima di giustizie ingiuste (il carabiniere non ha sguardo umano, è solo divisa, financo nello sguardo), attraversa l’effimero eldorado del paese dei balocchi, la sconfinata illusione d’una vita altra, viene ingannato, vilipeso. Pinocchio, dunque, nella narrazione di De Vito, è burattino per sempre, vittima assoluta, paga pegno per la sua deviazione dal consueto.

È personaggio contemporaneo, si riaffaccia all’oggi nelle parallele forme del migrante, con le sue identità annullate, marginalizzato, respinto, vilipeso, torturato, sfruttato, ridotto a clandestinità permanente.

Il Gatto e la Volpe dialogano negli abiti più consoni al loro ruolo di predatori, non solo di qualche moneta, d’umanità. Sono gli incappucciati del Ku Klux Klan, paiono divertirsi nel pianificare la caccia all’ultimo, la sua definitiva marginalizzazione. I volti celati nascondono nature social, di piazza virtuale che urla a nuove, abbondanti impiccagioni, crocifissioni.

Mangiafuoco è convitato di pietra d’ogni immagine, non è soggetto riconoscibile, non è immagine precisa in quanto sistemico, artefice del circo della filiera lunga, massimizzatore di profitti, si nutre dei nuovi schiavi.

È il 100% italiano che esclude da tracce percentuali nazionalità di braccia invisibili, corpi depredati. Pinocchio è bracciante senza nome, sconta identità sottratta, corpo dimenticato, spiaccicato sui prodotti dell’”eccellenza” a cottimo, un tanto al chilo, archetipo illustrativo d’operare di caporalati collettivi.

C’è più di qualche congruenza in “Nero Pinocchio” con l’essenza stessa dell’originale collodiano, se ne coglie il ribaltamento paradigmatico della visione consueta, in un certo senso la narrazione è compiuta, con la sua vertigine dialettica. Come per un fiume carsico De Vito fa riemergere la critica profonda a realtà che parevano dimenticate, da quel tempo di secolo nobile, e che, invece, sopravvivono, invisibili, sotto traccia, spaventose come allora.

Modica 18 Luglio 2022